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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

La fotografia post mortem

da | Dic 23, 2022

Foto dal Web

Il culto dei defunti è un insieme di rituali e abitudini sociali che attraversa trasversalmente spazio e tempo, ritrovandosi in ogni luogo e tempo con le proprie fasi e consuetudini. Quello che a noi oggi apparirebbe come macabro o morboso, come per esempio esumare le mummie dei parenti defunti per passare una giornata con loro e cambiare gli abiti o fare festa, per molte etnie è la prassi e non farlo equivale a un insulto ai propri antenati. Gli Europei, che si avviano a una stitichezza emotiva preoccupante, già guardano con sospetto e quasi derisione ad eventi come El Dia de los Muertos, figuriamoci quando si trovano davanti all’argomento di cui parleremo oggi: le foto dei defunti.

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Non si tratta di foto del defunto da vivo da mettere sulla lapide, ma di foto realizzate dopo la morte o a cavallo del trapasso e che venivano incorniciate o incastonate in pendenti come ricordo o come Memento Mori (tradotto: ricordati che devi morire), per rendere evidente che quanto la vita fosse labile e la morte compagna dei giorni lieti come di quelli di sofferenza. Questa “tanatometamorfosi” o mummificazione visiva, come viene da taluni definita, aveva il compito di bloccare l’aspetto del defunto prima che intervenisse la decomposizione e permettere una più profonda elaborazione del lutto e dell’ultimo saluto.

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L’usanza delle foto dei defunti ha preso particolarmente piede nell’Inghilterra vittoriana che ha vissuto a braccetto con le morti premature per tutto il XIX secolo. Le città erano infatti insalubri e le epidemie accrescevano giornalmente i morti, accompagnate dall’onnipresente violenza sociale e sfruttamento della povera gente. Basti pensare a Dickens e alle sue descrizioni, crude e vere, della condizione dei bambini di strada di Londra o Dublino, del loro uso nelle miniere e nelle fabbriche.

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Ma la fotografia post mortem non è nulla di nuovo nella società, poiché in passato la ritrattistica su tela o l’uso di creare maschere funerarie erano già diffuse per chi poteva permettersi tale lusso. La fotografia non ha fatto altro che rendere più accessibile la fabbricazione di questi ricordi e lo ha fatto con una tale diffusione, da permettere la nascita di studi fotografici specializzati proprio in questo genere di ritrattistica.

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La fotografia, ovvero la trasposizione su un supporto di una immagine reale catturata tal quale, grazie alle reazione chimica spinta dalla luce solare, non nasce coi brevetti del 1800. La formazione di una immagine circolare quando la luce passa da un punto stretto venne già intuita e studiata da Aristotele e poi dall’arabo Alhazen che, poco dopo l’anno 1000, diede il nome “Camera oscura” allo spazio in cui si faceva confluire la luce. Il concetto poi venne ripreso nel XV secolo da Leonardo da Vinci che disegnò una sua versione di Oculum Artificialis. La fotografia moderna, misto di chimica e fisica, trova i suoi primi, veri vagiti nella prima metà del 1700 con effimeri risultati, poiché le immagini non riuscivano a restare focalizzate sul supporto, ma continuavano ad annerirsi man mano che venivano esposte. Serviva un mezzo per bloccare a reazione chimica.

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Ed ecco che la fotografia nel 1816 compie un balzo avanti con il brevetto di Niépce e, in seguito, dalla collaborazione dello stesso e di suo figlio con Daguerre che, migliorando i supporti e le sostanze chimiche, riesce a far divenire la fotografia un mezzo economico e sempiterno di rappresentazione della realtà. Erano nati i Dagherrotipi.

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Negli anni successivi molti inventori cercarono nuovi modi di rendere la fotografia più veritiera, colorata, eterna e facile da realizzare con camere oscure sempre più piccole e trasportabili, puntando soprattutto a ridurre i tempi di posa che in quella prima fase erano di almeno otto minuti. A seconda del supporto su cui venivano ricavate le foto e dei reagenti usati, vennero brevettati dagherrotipi, eliotipi, calotipi, talbotipi, ferrotipi e ambrotipi, fino a giungere a meccanismi che usavano l’elettrolisi e l’energia del vapore.

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Si lavorò poi sulle lenti e i fuochi di apertura della “camera oscura” dentro l’apparecchio fotografico, riducendo i tempi di posa a pochi secondi. Ogni innovazione, abbinata a un miglioramento dello studio delle luci, naturali o artificiali, del fotoritocco successivo o del trucco sui volti, permisero di realizzare paesaggi e ritratti, di celebrare la vita e di ricordare la morte.

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Quando un congiunto entrava nello studio fotografico, poteva scegliere una foto a domicilio, nell’atelier o in esterno e i macchinari, ormai portatili, sebbene poco agevoli, permettevano ai professionisti di realizzare ogni richiesta dei committenti, bastava solo indicare la tipologia di foto che si voleva realizzare:

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Memento mori – era una foto del defunto in cui erano evidenti la condizione di morte sia nell’aspetto che nella posa, a mani congiunte e nell’ambientazione, sul letto di morte, nella bara e con attorno suppellettili di preghiera, fiori, crocefissi e rosari. L’intento in questo caso era ricordare l’aspetto della morte e il fine verso cui tutti stiamo camminando.

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L’ultimo sonno – rappresentava il defunto sul letto di morte, di solito ben accomodato e pettinato, in modo che sembrasse solo addormentato, senza alcun intento punitivo o di riflessione sulla morte. Era un ricordo per la famiglia.

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Parvenza di vita – collocava il defunto in mezzo agli oggetti più cari, in atteggiamenti o pose di vita quotidiana. Famose soprattutto le foto di bambini circondati da giocattoli.

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Prima e dopo la morte – riprende il concetto di Memento Mori e prevedeva due foto, prima e dopo la morte, da inserire in un porta foto doppio, a libro, in modo che il defunto venisse mostrato nella sua fase di agonia e poi nel riposo del sonno eterno.

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Vivo tra i vivi – prevedeva il defunto in piedi o seduto in posa da vivente, sorretto da stampelle visibili anche nelle foto, a volte truccato, con gli occhi aperti con stecchini o con iridi e pupille disegnate sulle palpebre chiuse e accompagnato nella foto da parenti, amici, a volte anche dal prete e dai fotografi stessi, per documentare la presenza delle persone all’estremo saluto.

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Sono usanze che a noi paiono quanto meno strane, morbose alle volte, ma che ben si sposavano con il sentire dell’epoca, che faceva quotidianamente i conti con la morte violenta, le epidemie e l’insalubrità delle grandi città industrializzate. Erano persone più abituate di noi a perdere i congiunti, anche molto giovani e che trovarono nella fotografia post mortem un modo per conservare la memoria dei loro cari. Noi, al contrario, spesso tendiamo a voler anticipare le esequie, chiudere in fretta e in maniera standardizzata un capitolo doloroso della nostra vita. Una volta sepolti, lontano dagli occhi, sentiamo di aver fatto quanto dovuto e andiamo avanti con le nostre vite, continuando a celare e nascondere la morte con la quale non sappiamo più rapportarci.

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2 Commenti

  1. Antonia

    Trovo che la scelta di immortalare un proprio caro dopo il trapasso sia di una dolcezza inesprimibile, come a voler conservare per sempre un ricordo del defunto e soprattutto per non dimenticare che un giorno la ruota girerà e toccherà anche a chi resta lo stesso destino.

  2. admin

    Grazie del tuo contributo Antonia. Molte foto sono dolorose da guardare, specie quelle dei bambini. Mi immagino che un genitore pensi di avere tutto il tempo di fare un bel ritratto al proprio figlio e poi…

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