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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

Estratti inediti – L’abito della Signora

da | Mar 28, 2022

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«Caterina!»

La voce squillante della donna giunse come un’eco ovattata e lontana.

«Caterina! Ma hai dormito qui? Benedetta ragazza!»

Per Caterina aprire gli occhi, svegliarsi, alzarsi dal sopore gelido in cui erano intorpidite le membra, sembrava semplicemente troppo difficile.

E intanto, quella voce femminile macinava parole ad una velocità troppo elevata per i sensi della ragazza, racchiusi in un rassicurante dormiveglia.

«Cosimo! Tua figlia si è di nuovo addormentata mentre lavorava, ha passato al freddo tutta la notte! Metti a bollire l’acqua che la scongelo!»

«Guarda che è anche figlia tua Scilla», aveva risposto una voce maschile, poco prima che il rumore dell’acqua, versata in un paiolo ampio, rimandasse il suo tintinnio.

«Quando fa queste cose è più simile a te che a me», aveva ribattuto la donna. «E non chiamarmi Scilla, non sono un mostro mitologico. Sono Pri-Scilla!» sillabò con un risentimento falso, sporcato dal sorriso accondiscendente verso quelle innocenti scaramucce coniugali.

Avvolse le spalle fredde di Caterina con una coperta di lana, massaggiandole vigorosamente, per poi posarle un bacio sui capelli raccolti in una crocchia in cima al capo.

La ragazza aveva roteato gli occhi dietro le palpebre serrate, poi aveva sollevato la testa lentamente, con la sensazione di dolore al collo e alla guancia destra.

Sua madre era lì a guardarla, col suo sorriso amorevole e sereno, nonostante l’abito a lutto. «Ma guardati, hai le perle sul viso. Almeno hai finito?», chiese mentre, con le dita a pinza, le sfiorava la guancia, rimuovendo le perle rimaste incastrate contro la pelle dopo una notte intera in cui le erano state giaciglio.

«Mmh sì madre, ho finito», e si era alzata in piedi, liberando dalle braccia le stoffe che aveva tenuto strette al corpo per tutta la notte.

La donna le aveva prese, sollevando l’opera sartoriale per contemplarla alla fioca luce di quel sabato mattina di inizio gennaio.

«Hai le mani d’oro figlia mia, te l’ho sempre detto e lo dirò sempre», esclamò Scilla, con una buona dose di fierezza materna, mentre gli occhi castani percorrevano i dettagli dell’ampia scollatura quadrata e le pieghe della seta color lavanda, precise e simmetriche, che decoravano il tessuto all’altezza del seno, sotto il quale la cintura segnava nettamente la circonferenza del torace, lasciando poi cadere quell’ampia tunica in linee pure, verticali, neoclassiche.

La ragazza aveva socchiuso la bocca, con l’espressione del viso e il rossore delle gote che ne tradivano la modestia, ma Scilla le aveva rubato la scena. «Non dire nulla, faccio la sarta da molto più tempo di te e credimi, quando dico che hai un dono. Anche solo riuscire a prendere misure perfette a occhio è segno di genialità. Si risparmia un sacco di tempo a non dover sempre ricorrere al metro.»

Caterina aveva sollevato le spalle, rinunciando a ribattere, limitandosi a tirare via un pelucco di imbastitura rimasto agganciato nella cucitura definitiva.

Per quell’abito aveva giocato con un’alternanza di pizzi bianchi, che riempivano l’interno della plissettatura, e seta violetta, cui era lasciato il compito di illuminare le zone d’ombra della lavorazione coi suoi riflessi cangianti.

Le maniche a palloncino riprendevano il motivo a plissettatura, allargandosi a sfera per poi stringersi a metà del braccio con un cinturino rigido.

La gonna scendeva ampia e lieve, con un piccolo strascico posteriore ed era sostenuta da una sottogonna che bastava a darle corpo, senza dilatare in orizzontale una linea che la moda imperiale voleva essenziale, priva di paniers e con molte concessioni ai corsetti.

Lungo tutta l’ampiezza posteriore, Caterina aveva applicato un pizzo che abbracciava le natiche, scendendo a punta verso lo strascico e, così come aveva fatto nelle zone interne alla plissettatura, anche su quel ricamo a rose aveva cucito centinaia di perle di tre dimensioni.

A cavallo della seggiola, già erano ripiegati i lunghi guanti e la stola di volpe bianca da abbinare all’abito.

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La madre rimise l’opera sul manichino di legno e legò la cintura in vita, affiancandosi alla figlia, cui schioccò un altro bacio orgoglioso sulla guancia.

Caterina incassò la testa nelle spalle in ritardo rispetto all’effusione di Scilla, ma finalmente trovò il coraggio di tirar fuori una frase. «Clara è davvero brava a ricamare. Senza i suoi dettagli, i miei abiti non sarebbero che tele per pezzenti.»

«Tua sorella è brava, non lo nega nessuno, ma sono le tue mani a rendere speciale ogni creazione e il tuo occhio professionale a individuare il modello giusto. Non solo con tessuti acquistati dai mercanti, ma anche con quelli che tingi e tessi di persona e questo non lo fa nessuno dei sarti. Solo tu. In questo modo puoi conoscere più a fondo le tele che userai e offrire un prodotto completamente personalizzato», la strinse e le accarezzò la guancia, su cui ancora indugiavano i segni delle perle su cui aveva dormito, nonostante Caterina cercasse di schermirsi con delicatezza, senza offendere la madre.

Alla fine Scilla rinunciò al contatto fisico con la figlia e si limitò a restarle accanto: «Non resta che consegnare l’abito alla signora!»

A quelle parole, Caterina sbiancò, le gambe tremarono e le mani si fecero fredde. «M-madre io non…»

«Sssh. Ora vieni a fare una sana colazione», disse portandola a braccetto verso la cucina, «un bel bagno caldo e poi Carlo ti accompagnerà a fare la consegna. Quei soldi ci servono, prima consegni, prima incasseremo. La sartoria Casati Porta è pronta per un salto di qualità.»

«Magari se venissi con me, azzardò Caterina.»

«Non posso, io e tuo padre andremo alla veglia funebre per mio cugino.»

Il padre, pure vestito a lutto, stava apparecchiando il grande tavolo di legno con pane riscaldato sulla stufa, latte e marmellata.

«Milano e l’Italia piangono il grande Carlo Porta», disse lui, baciando senza pudore la moglie sulle labbra. «Tuo cugino ha reso grande la nostra prosa, la sua vena umoristica contro il clero e a favore dell’indipendenza della Lombardia, è stata un faro per tutti noi. Conto che poi veniate anche voi figli per l’estremo saluto.»

Caterina annuì senza parlare, perché ci pensò sua madre a rompere il silenzio: «Tanto lo so che vieni solo per fare comunella con i tuoi amici… carbonari!»

Aveva detto l’ultima parola abbassando la voce a un sussurro soffiato tra i denti, mentre gli occhi vagavano inquieti verso le finestre.

«Ne abbiamo già parlato Scilla, l’Italia ha da essere libera e, se non ci ha liberato quel traditore di Napoleone, lo faremo da noi. Tutte le conquiste che il popolo stava ottenendo fino a pochi anni fa sono state spazzate via da Vienna e da quel congresso di parrucconi», disse sollevando le braccia con animosità.

La donna scosse il capo, preparandosi a ribattere, ma un rumore di passi al piano superiore annunciò che il resto della casa si era svegliato e lei mise il dito sulle labbra. «Sssh! Non davanti alle bambine», e indicò il piano superiore, mentre Cosimo indicò Caterina, sottolineando l’ovvio con un’alzata di folte sopracciglia.

Scilla tagliò corto: «Caterina è diversa, è così discreta e silenziosa, che le si potrebbe affidare qualsiasi segreto, tuo e di quello scapestrato di tuo figlio Carlo.»

«Essere carbonari non è essere fuorilegge.»

«Per gli Asburgo e la loro scucchia sì!» disse lei, che spinse la mandibola oltre l’arco di denti della mascella, prendendosi il labbro inferiore tra le dita e, con quell’espressione grottesca, del tutto simile ai ritratti dell’endogamica casa imperiale, arrotò la erre. «TVaeteli agli aVVesti!»

Cosimo rise tanto da farsi uscire il latte dal naso e Caterina sorrise in silenzio.

«Comunque, né Carolina né Clara sono più bambine», specificò Cosimo, tossendo e pulendosi il latte dal volto.

Le due sorelle scesero insieme.

Carolina, la primogenita, camminava col passo lieve ed elegante delle dame, il sorriso estatico delle ragazze innamorate e portava stretto al cuore un biglietto tenuto con entrambe le mani; Clara era la più piccola della casa e saltò gli ultimi tre gradini per correre nello studio attiguo e guardare l’abito completo, esposto sul manichino.

«È bellissimo Caterì! È stupendo! Te lo deve pagare il doppio, anzi il triplo! Neanche la Augusta Amalia ne può vantare uno così perfetto!»

«Grazie Clara, avrai la tua parte per i ricami, non temere!» le aveva risposto Caterina, spalmando la marmellata sul pane.

«Per questo dico di farti pagare il triplo, così ce ne sarà di più per me. Voglio comprarmi un manicotto di pelliccia!» e tornò in cucina, incassando lo sguardo di biasimo del padre e quello indulgente della madre. «Che c’è? Non è avidità la mia, non sto facendo peccato. È un lavoro perfetto e ne va riconosciuto il valore. Il valore economico dico. Mica sto qua a ricamare per la gloria!»

La madre servì il latte caldo a lei e a Carolina, che sospirò estasiata: «Peccato solo che tu non possa sfoggiarlo al ballo cui sono stata invitata», disse con una punta acuminata di arroganza, mentre si faceva aria col biglietto.

«Il ballo di Carnevale?» chiese Clara, sedendosi a tavola.

«Esatto, il dieci di marzo, a conclusione delle feste dei folli. Il consueto ballo dell’equinozio di primavera è stato anticipato per non ricadere in quaresima. Essere invitati è un onore e Markus ha invitato me!»

Cosimo socchiuse gli occhi, sospettoso. «Ci saranno anche ufficiali austriaci?» chiese, secco e contrariato.

«Beh suppongo di sì, ma è un ballo decoroso, nulla di sconveniente», si affrettò a dire la ragazza.

«Oh basta Cosimo! Nostra figlia è in età da marito già da un po’, se non le permettiamo queste uscite in società, resterà zitella», Scilla poi si rivolse direttamente alla figlia. «Ora che Caterina e Clara hanno finito l’abito della signora, possono dedicarsi al tuo.»

«E sarebbe anche ora!» rispose Carolina e fissò acida Caterina, che restò con gli occhi fissi sulla tazza di latte. «Ho ben ventitré anni, Clara diciannove. Passi Carlo che è un uomo e che, coi suoi ventuno, può ancora aspettare e Caterina, che con il suo carattere non troverà un uomo neanche con il cannocchiale dell’ammiraglio Nelson, ma io ho bisogno di sposarmi e di terminare la dote!»

Priscilla fissò di sottecchi la reazione di Caterina con l’apprensione dipinta sul volto, ma quando la vide masticare il pane, espirò e mise la mano sul polso della primogenita. «Non preoccuparti di quello. Coi soldi di quell’abito potremo prendere il lino per le lenzuola e il filo di seta per i ricami.»

Carolina annuì con la stessa fredda condiscendenza di una sovrana dinanzi alle suppliche del popolo.

Caterina la fissò in silenzio, cogliendo ogni dettaglio di quella maschera che si era cucita addosso, di quel ruolo che si era ritagliata nel piccolo mondo dei figli Casati, che amava comandare a bacchetta.

Ma lei sapeva che quell’acredine era nata solo di recente, quando si era resa conto di non avere reali abilità, al contrario di Caterina che poteva rendere speciale ogni pezzo di stoffa che le capitava sotto mano, anche un banale puntaspilli imbottito o di Clara, che aveva il pallino del ricamo, che realizzava con velocità e precisione, anche mentre continuava a parlare con la velocità di un banditore di questo o quel sogno nel cassetto.

Caterina apprezzava l’aiuto di Carolina nell’attività di famiglia e si dispiaceva di offrirle sempre e solo mansioni da apprendista; sapeva che il suo orgoglio avrebbe preteso un ruolo dirigenziale, ma purtroppo la primogenita non aveva le capacità o le competenze di gestire la confezione degli abiti.

Sapeva anche che il carattere di Carolina le imponeva di sopravvalutarsi in molte occasioni, ma in una in particolare aveva pienamente ragione.

La bellezza.

Carolina aveva preso il meglio dei tratti somatici dei genitori e li aveva valorizzati con esercizi fisici, che le avevano regalato un corpo tonico e piacevole a vedersi, a completezza di un viso piacevolmente affilato, con boccoli castano ramati, sapientemente acconciati, che si armonizzavano al verde caldo e dorato degli occhi.

Anche Clara era molto graziosa, seppur di due spanne più bassa della sorella, più tornita nel ventre e coi capelli troppo lisci per tenere a lungo una riccia piega alla moda.

L’unico brutto anatroccolo della casa era proprio Caterina, il cui naso, già di lunghezza importante, eredità dei Porta, portava il segno di una rottura antica e dell’assestamento con una leggera gobba, laddove la cartilagine si salda all’osso.

Le sopracciglia, folte in tutte loro, come tratto distintivo di tutti i Casati, venivano strappate con perizia da tutte le donne di casa, per dare forma delicata agli archi e liberare il ponte sopra il naso.

Caterina non si curava del cespuglietto sopra gli occhi da tanto tempo e i peli scuri erano ormai cresciuti, tanto da unire quasi gli archi in unico ciglio.

Al di sotto, gli occhi grandi avevano un monotono tocco castano caldo e i capelli castano scuro erano troppo ricci crespi per apparire desiderabili.

Scilla le ripeteva sempre di curarli maggiormente con creme e oli, come faceva lei, ma Caterina si limitava ad arrotolarli un po’ a caso sulle dita e appuntarli in cima alla testa con un uncinetto o un ferro da maglia.

*

Finita la colazione, Scilla aprì il séparé in cucina e versò l’acqua calda nella tinozza.

«Devi presentarti bene a casa dei nobili o non ti daranno altre commesse. Questa è un’occasione d’oro se vogliamo agganciare i danarosi. Se piaci a una di quelle nobildonne, si passeranno parola e noi riusciremo a diventare famose», le sussurrò la donna, fregandole i capelli e il corpo con la spugna intrisa di sapone alla violetta.

Caterina non rispondeva, si lasciava spostare, manipolare e lavare come fosse una neonata in fasce.

Quando la donna le consegnò la spugna, lei si occupò dei piedi e rilassò le spalle contro il legno foderato di lino bianco.

Non appena reclinò la testa indietro, la madre prese a tirarle i peli delle sopracciglia, iniziando la potatura troppo a lungo rimandata.

Ogni strappo era un dolore puntiforme che le faceva lacrimare gli occhi e pizzicare il naso, ma sopportò tutto in silenzio.

Clara la attese con il telo di lino, caldo di stufa, per avvolgerla dopo il bagno. «Mi raccomando, tratta sul prezzo, fatti pagare di più», aveva sussurrato.

Caterina non aveva ribattuto, ma aveva seguito docile la madre fino alla propria stanza, al piano superiore.

L’abitazione dei Casati faceva angolo con la Piazza di Sant’Eustorgio, nel borgo della Cittadella e sorgeva su tre piani.

Al pianterreno, la sartoria aveva una vetrina aperta sul vasto Corso della Cittadella e vi esponeva abiti, ricami e stoffe; il suo ingresso indipendente era stato posto proprio sull’angolo, tagliato quanto bastava a inserire una porta a due battenti, così da offrire visione dell’attività da entrambe le vie di confine e, soprattutto, dalla Piazza stessa.

L’ingresso privato della casa era invece situato proprio alla fine della lunga vetrina, dove il bel portone di legno massiccio e ferro battuto si apriva in un corridoio largo, che fungeva da disimpegno tra la zona della famiglia, con una cucina e una sala da pranzo e quella di lavoro, correndo dritto verso l’ingresso posteriore.

Dal secondo ingresso si usciva nel vasto cortile, comune a tutte le case, affiancate chiuse ad anello a creare una vasta corte con le stalle e i magazzini per i carri; appena a destra di quella porta più discreta, di legno e vetro, si incontrava la scala che scendeva in cantina e saliva nella zona nobile.

Il piano interrato era adibito a magazzino e dispensa, e qui Caterina aveva il suo piccolo regno, col telaio e i barili per la tintura delle stoffe.

Il piano superiore, infine, ospitava cinque stanze.

La camera più grande era occupata dai genitori e le quattro più piccole, una per ciascuno dei figli, erano state ricavate dividendo lo spazio originario con dei muri accessori di legno, sfruttando le finestre dei tre lati esposti della casa, per dare a ciascuno il proprio locale privato.

Sopra le loro camere da letto c’erano altri due piani, di cui il secondo era un solaio insalubre, comunque occupato da una delle tante famiglie indigenti, che accedevano alle proprie abitazioni dalle scale interne al cortile.

Caterina si accomodò davanti al proprio specchio da toeletta, vestita con un semplice abito di lana marrone scuro, con la manica a palloncino che si stringeva in un’aderenza lunga fino ai polsi ed era trattenuto sotto al seno da una cinturina di velluto chiaro; la scollatura quadrata lasciava emergere una camicia in mussola del medesimo bagno di colore, che si prolungava in una chiusura a collo alto, ornata di un pizzo discreto che riprendeva il color sabbia della cinturina.

Mentre la madre le acconciava i capelli, la piccola di casa si aggirava come uno squalo attorno alla sorella, trattenendo a stento la necessità di parlare, finché sbottò: «Posso venire anche io, se non te la senti. Tu sei l’artista, io il tuo agente, posso fare in modo che ti paghino il giusto.»

«Clara, adesso basta, tua sorella sa come farsi pagare!» aveva detto la madre, appuntando l’ultima forcina.

«Una volta forse. Adesso sembra un cane bastonato quando la gente le parla», Caterina aveva abbassato la testa e Scilla aveva fulminato la piccola con lo sguardo. «Inutile che mi guardiate così madre, dico solo la verità. Possibile che l’ho notato solo io? È più di un anno ormai, da prima di Natale, una mattina è scesa e non era più lei. Da allora gira per casa come un fantasma, un’estranea, e vive solo tra il negozio e il telaio nello scantinato.»

«Clara…» Scilla cercò di farla tacere, di mostrarle lo sguardo di biasimo con cui la voleva ammonire, ma la ragazza camminava tutto intorno a loro senza guardarle.

«Non abbiamo avuto spiegazioni e, alla fine, tutti abbiamo semplicemente accettato che Caterina fosse cambiata. Per come è incapace di farsi valere nel mondo, se la signora dovesse tirare fuori la spocchia arrogante dei nobili, c’è il rischio che il vestito glielo consegni in dono!»

«Torna in camera tua Clara, non te lo ripeterò!» tagliò corto la madre, ma le sue parole non erano sostenute dall’espressione e, benché cercasse di atteggiarsi a severa, tradiva la sua preoccupazione per Caterina nel modo fugace di fissarne le reazioni.

«Insomma la tenete tutti nelle piume, adesso anche basta!» disse sbattendo la porta della sua stanza.

Priscilla sorrise forzatamente, fissando lo specchio e sistemando le ultime ciocche. «Non dare retta a tua sorella, sai che non trattiene nulla in quella boccaccia sguaiata.»

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«Ma ha ragione», rispose Caterina e Priscilla non poté fare altro che tendere le mani, come per abbracciarla e salvarla dall’abisso in cui lo sguardo stava sprofondando, ma alla fine strinse i pugni e si limitò a finire di arrotolare i boccoli sul dito.

Un trambusto di pentole e piatti al piano inferiore salvò le due da ulteriori spiegazioni e annunciò l’arrivo di Carlo: «Madreeee! Non è avanzato nulla per colazione?»

«Buongiorno anche a te figliolo», rispose la donna dalla cima delle scale, seguita da una mesta e nervosa Caterina, col cappotto foderato di traverso sul braccio e il velo nero del lutto sul capo. «Non ti danno da mangiare a casa Milesi?»

Carlo appoggiò un lungo e stretto pacco avvolto in fogli di giornale sul tavolo: «Certo che me lo danno, ma faccio colazione alle sei con la servitù, sono le dieci e ho ancora fame», disse lui, togliendosi il berretto per offrire un bacio sulla guancia a Priscilla.

Carlo aveva la stessa prestanza fisica dei Casati, piuttosto rotondi e con folte sopracciglia, mentre invece Carolina e Caterina avevano preso l’altezza e la corporatura snella dei Porta, ma lui raggiungeva la sorella per altezza e nell’insieme appariva ben proporzionato, anche se il volto di ventunenne indugiava ancora nell’adolescenza, con radi peli sul mento e sotto il naso e, soprattutto, con qualche brufolo di troppo sulle guance.

Carlo e Caterina erano coetanei, ma non gemelli e avevano infatti undici mesi di differenza, poiché lei era nata alla Candelora e lui pochi giorni dopo il Natale del medesimo anno, il 1800.

Il legame che avevano, però era più simile a quello dei gemelli e si intuiva dalla complicità dei gesti e degli sguardi che avevano uno per l’altra.

Mentre il ragazzo si concedeva una generosa merenda, indicò il lungo pacco: «Padre, vi ho portato il nuovo bastone da passeggio», e prima che l’uomo obiettasse, il ragazzo incalzò. «E non voglio sentire la scusa che non siete ancora vecchio e storpio, vi serve!»

Cosimo intervenne dalla sua poltrona, in cui leggeva il Corriere di Milano: «Un vezzo da cicisbei!»

«Il bastone non è un vezzo da nobili, padre. È una necessità. Ormai nessuno va più in giro senza a Milano, non se volete avere un’arma legittima di difesa dalla Teppa.»

Cosimo rugliò come un vecchio orso: «Sono carbonari come noi, non oseranno.»

«Io non ci conterei, sono cambiate molte cose e la Compagnia della Teppa non è più quella di prima, ora bastonano innocenti a loro sentimento e sono stati estromessi dalla Carboneria. Fate felice vostro figlio e uscite armato, anche solo per andare alla veglia. Fatemi stare tranquillo. Diteglielo voi madre!»

Priscilla si stropicciò a lungo le mani, poi si voltò verso il marito: «Tuo figlio ha ragione, lo dicono tutti, i Teppisti si sono fatti prendere la mano e godono a perpetrare scherzi violenti e pestaggi, vero Carlo?»

«Vero, ma non chiamatemi più così, ora il mio nome da battaglia è Baio.»

«Come il manto del cavalli? E che è questa novità?»

Cosimo borbottò, alzandosi per scartare il suo bastone e contemplarlo nei dettagli: «Se dovevi chiamarti come il pelo di cavallo, almeno potevi scegliere Cremello!»

Scilla parlò sopra il marito: «Il tuo nome è Carlo in onore del cugino Carlo Porta», e si fece il segno della croce. «E poi sai che tuo padre è fissato con i nomi che iniziano per C!»

«Infatti, quando è nato ti assomigliava tanto, che volevo chiamarlo Cariddi.»

«Dah, basta, Cosimo! A discutere con te c’è da farsi venire l’apoplessia! Non te ne vai a lavorare dagli Stampa? Come faranno quei bambini senza il loro precettore! Dai vai su su! Ma tipo per tutto il giorno!»

«C’è la veglia e ci saranno tutti i Carbonari a rendergli omaggio. Ti tocca sopportarmi tutto il giorno, mia cara mogliettina!» e le aveva soffiato un bacio, cui lei aveva risposto atteggiando la bocca.

Caterina sospirò rasserenata dalle scaramucce dei genitori e, per un istante, dimenticò che avrebbe dovuto uscire di casa, affrontare il mondo, ma quando Carlo iniziò ad abbottonarle il cappotto, salendo fin sotto il mento, il cuore riprese a martellarle nel petto.

Scilla si occupò dell’abito della signora, che mise su una gruccia di legno levigata e preziosa e che avvolse in un sacco di fine lino, su cui Clara aveva ricamato il loro marchio, due C parzialmente sovrapposte, costituite l’una da un ramo di edera, l’altro da uno di rosa con tanto di spine.

Quando lo consegnò a Caterina, non disse nulla, ma sorrise e annuì, comprendendo in quel gesto tutto l’orgoglio e la fiducia che nutriva per lei.

Ferma sulla porta della vetrina della sartoria, Caterina strinse l’abito e fissò la piazza che si apriva dinanzi a lei, così ampia, così piena di gente, così vasta, da farle venire le vertigini, come se lo spazio si stesse dilatando dinanzi ai suoi occhi e gli odori divenissero più intensi.

Percepiva ogni cosa, dal sentore di ghiaccio della neve, al grattare del corvo fra i fiocchi ormai compatti, mentre in bocca le scorreva il sapore acido del reflusso.

Riconobbe la crisi di panico prima ancora di percepire la scarica di adrenalina nel corpo e i tremori nelle membra.

Carlo se ne accorse subito e lasciò aperto lo sportello della carrozza, per andarle incontro e sostenerla sotto braccio. «Sali pure dentro, al caldo», le sussurrò.

Tra la soglia e il predellino, Caterina avrebbe dovuto compiere solo quattro passi, eppure le gambe di legno erano immobili, incapaci di muoversi anche per quel semplice gesto.

Carlo la abbracciò con la scusa di prenderle il carico dalle mani e la trascinò, praticamente di peso, alla vettura: «Sali dentro», disse a bassa voce.

«M-ma no, ci metto solo il vestito, i-io sto a cassetta, con te.»

«La signorina Milesi mi ha accordato il permesso di portarti dentro l’abitacolo», disse lui, mettendo l’abito sul sedile imbottito di velluto. «È una brava signora, non è un’egoista spocchiosa e, quando ha saputo che dovevo accompagnarti a fare la consegna, mi ha detto di usare la carrozza e ha specificamente aggiunto di fartici accomodare», le mise le mani sui fianchi per sollevarla e spingerla dentro. «Quindi niente storie.»

«Non sono persuasa che ti abbia detto così», obiettò lei.

Carlo chiuse il predellino e si sporse all’interno. «Lavoro da tre anni con lei e vivo a casa sua praticamente. Abbiamo una certa confidenza.»

Caterina accettò di buon grado la gentilezza, sia per il freddo intenso di quella mattina di gennaio, sia perché si sarebbe sentita sicuramente più protetta, infatti si appoggiò contro il sedile imbottito, rilassandosi.

Carlo le sorrise e lei lo fissò: «Grazie. Anche per la tua discrezione e le tue premure. Sembrano casuali, ma io so che fai tutto per me.»

«Sei la mia sorellina, io ci sarò sempre per te, anche quando sarai pronta a parlare», e chiuse lo sportello.

Pronta a parlare.

Pronta a parlare.

Quelle parole le risuonavano in testa e si ritrovò ad affondare le unghie nel velluto delle sedute.

La carrozza dondolò quando Carlo salì a cassetta e lei si sforzò di lasciare la presa e sporgersi a tirare le tendine, precipitando il piccolo salotto imbottito in un buio quasi totale. Quando riuscì a non vedere più l’esterno, riprese a respirare normalmente, i piedi e le mani si riscaldarono, come se il sangue avesse ripreso a scorrere solo in quel momento e il gorgo di tensione al ventre si allentò.

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