BLOG LETTERARIO

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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

Elisa Nicotra

da | Mag 9, 2022

Vi siete mai chiesti“, dice Elisa Nicotra, la nostra ospite di oggi, “cosa accadrebbe se un folletto irlandese, per giunta affetto da violinismo, si ritrovasse rinchiuso nel più orrendo manicomio londinese? E’ cio’ che accade a Flannan, folletto Folle e Furioso per essere stato disprezzato dall’amata Maggie, l’indomita fanciulla dallo sguardo di zaffiro e dal linguaggio da carrettiere. Fuggito su un treno (diavoleria moderna che funziona forse per mezzo di draghi) Flannan si ritrova in terra sconosciuta, lontano dall’Irlanda e dai suoi fatati amici. Come due carte dei Tarocchi, il Matto e l’Imperatore si fronteggiano in una misteriosa sfida. Per sopravvivere, Flannan racconta la sua storia, canta canzoni in gaelico, scrive lettere ai suoi amici folletti analfabeti, e compie altri gesti inconsulti che gli procureranno dapprima feroci punizioni e poi la libertà. In un’alternanza di disperati lirismi colmi di mitologia celtica, racconti di esilaranti peripezie conditi da danze e canzoni, accompagnerete il giovane folletto violinista nei suoi canori vagabondaggi, dalla reclusione alla libertà, attraverso le tappe assurde della sua autobiografia (ad esempio quella che narra dell’amore di Maggie per un diario che renderà Flannan rivale di se stesso), tra oscuri velieri norvegesi, misteriosi falsi infermieri e i neodruidi di Glastonbury, verso casa, verso la Collina delle Fate.

Foto su concessione dell’autore

Ciao e benvenuto nel Blog di memorie dal Buio. Rompiamo il ghiaccio con una presentazione. Raccontaci di te e di ciò che hai scritto.

Ciao, mi chiamo Elisa Nicotra, sono musicista e scrittrice, originaria di Milano, ma con Venezia nell’anima. Ora però vivo in Bretagna, che ho scelto per il clima, per il forte retaggio celtico e forse anche perché è il posto dove ho finalmente trovato la pace per finire e pubblicare un po’ di progetti inizati nel corso della mia vita. Come libri per ora ne ho pubblicato uno solo: “Memorie di un folletto”, ma l’ho fatto in due lingue, lavorando a stretto contatto con la traduttrice. Ho scritto anche delle canzoni, e il mio secondo romanzo è (spero) quasi finito. Sono appassionata di fantasy, ma sono una lettrice onnivora. È forse per questo che nei miei romanzi sfuggo spesso dal fantasy per andare altrove, soprattutto nel romanzo storico.

“Memorie di un folletto” è la storia di un giovane irlandese nella seconda metà del XIX secolo. Non è un irlandese come tanti altri: è figlio di un elfo. Ma il suo lato umano è profondamente toccato dalla sorte degli Irlandesi che, appena usciti dalla Grande Carestia, vivono ancora soprusi e violenze da parte dei colonizzatori inglesi. Persino il suo amore impossibile per la cugina Maggie è influenzato dalle divisioni sociali ed etniche. Ma dopo il suo penoso soggiorno nel famoso manicomio inglese di Bedlam, torna in Irlanda con una nuova consapevolezza sulla vita, sulle persone, e sul suo posto a cavallo tra mondo fatato e mondo degli umani. In questo libro, tutti i capitoli ( tranne due) sono intitolati secondo delle ballate o delle musiche irlandesi ed inglesi dell’epoca. La musica gioca un ruolo molto importante nella narrazione.

Parlando di musica… ( se è pertinente con l’intervista) Le canzoni che scrivo trattano di tematiche a volte mitologiche, a volte esoteriche. In principio erano poesie, ma poi un giorno, cercando di imparare a memoria almeno quelle metricamente più armoniose, mi sono trovata a cantarle, e via. Ad esempio, “I Labirinti del Mare” è ispirata ai poemi pseudo-omerici, ma “The Wild Man” è invece traduzione del personaggio del folklore celtico, ancora molto presente in Inghilterra, del Green Man, o dell’Uomo Selvatico presente anche nel folklore germanico e del Nord Italia, ma anche alla carta dei tarocchi Il Matto. “I ponti dell’est” si avvicina di più ai miei romanzi come tematica: una coppia di anime che si amano si reincotra, incarnazione dopo incarnazione, a Venezia sul ponte del Diavolo, poi in Irlanda e infine per le strade di città sconosciute.

Non so se parlare del mio secondo romanzo, che non è ancora pubblicato… si chiamerà “Il canto del dio selvaggio” e in esso ho racchiuso molti aspetti delle mie credenze, del mio vissuto e del mio immaginario: un dio venuto dal Nord per sterminare l’umanità, su richiesta di sua madre, la Terra, gravemente afflitta dagli umani, ritrova la sua identità dimenticata al momento dell’incarnazione, viaggiando attraverso i tempi e i mari in compagnia di una nave-drago e della sua ciurma di pirati vichinghi, fino a trovarsi, solo e tradito, nella civiltà della fine del XIX secolo, come unici alleati la sua arpa magica e la sua fedele lupa bianca. In quella stessa epoca, il suo ultimo possibile fedele, Malo, pittore debosciato, dedito all’arte del fallimento, della seduzione, della droga e del delirio, abbandona la Bretagna natale, troppo bigotta per capirlo, e cerca fortuna a Parigi, per infine rifugiarsi, sfiduciato, a Venezia. Là si imbatte progressivamente in un gruppo di personaggi misteriosi e nelle loro attività esoteriche. Non svelo quel che succede dopo, naturalmente… Ogni capitolo si intitola col nome di una carta dei tarocchi o col nome di una runa, con tanto di citazione del poema runico scandinavo.

Foto su concessione dell’autore

Quanto è importante il ricordo e la memoria nella trama del tuo lavoro?

Tantissimo! Nel mio primo romanzo è un elemento portante: si capisce dal titolo stesso, dal momento che il romanzo è scritto sotto forma di memorie. Il protagonista, chiuso in un manicomio, spesso isolato in una cella buia, cerca di tenere insieme la propria identità ricordandosi e raccontando le sue avventure, ma anche il patrimonio tradizionale del suo popolo, che si voglia intendere le Fate o gli irlandesi. L’assenza di uditori è per lui a volte fonte di tormento: se nessuno raccoglie la sua memoria, come potrà conservarla da solo? E come potrà il suo popolo, costretto ad abbandonare la sua lingua e il suo folklore in favore di quelli inglesi, mantenere la propria identità? Tutti i suoi alleati, da sua madre alle persone che l’hanno educato

Nel secondo romanzo uno dei due protagonisti è un dio incarnatosi sulla terra per compiere la missione di… sfoltire l’umanità dalla Madre Terra che ne soffre. Incarnandosi, però, ha dimenticato la sua identità e il suo ruolo. Man mano che le sue avventure si dipanano, comincia a ricordarsi, e ad agire di conseguenza.

Quando scrivi, quanto attingi al tuo vissuto e alle esperienze passate?

Molto, direi. Forse sono più influenzata dalla storia, dalla musica e dalle tradizioni popolari, ma il mio vissuto si sente molto. Chi mi conosce riesce a riconoscere il ritratto di certe persone che ho colato in alcuni personaggi, umani o animali che siano. È più nel mio secondo romanzo, comunque, che questi aspetti sono preponderanti, perché si svolge in luoghi in cui ho veramente vissuto: la Bretagna e Venezia. Metto anche molte delle mie esperienze personali: tutti i miei protagonisti sono musicisti, ad esempio. Non riuscirei a fare altrimenti. Nel secondo romanzo c’è anche una cartomante, e attingo pienamente dalla mia esperienza in materia. Persino per quel che riguarda gli aspetti storici attingo alla mia esperienza, perché ho studiato archeologia e ho fatto l’archeologa per un breve periodo, e comunque ho sempre lavorato in musei, castelli o chiese…

Racconta il momento catartico, il più importante che serbi nel ricordo del processo di scrittura del tuo lavoro.

Avrei difficoltà a stabilirne uno in particolare. Trovo che ogni momento sia catartico. Sono estremamente minuziosa quando scrivo, e sento che ogni frase che ha trovato il ritmo, il vocabolario e la musica giusta è un tassello della mia vita che si allinea nell’Armonia del Mondo (forse esagero, abbiate venia) Sicuramente l’atto di terminare un libro è il più potente, perché c’è un punto finale. Anche se… sono talmente poco abituata al concetto di finitezza che credo di aver finito le “Memorie di un folletto” almeno tre volte, ed ancora adesso so che c’è il rischio che alla prossima edizione ci rimetta mano di nuovo. Altamente catartici sono anche i momenti in qualche maniera traumatici della mia vita che sono riusciti a trovare una nuova risonanza, una volta sublimati in episodi del mio libro.

Dei tuoi personaggi, ce n’è uno che possa essere lo specchio del vissuto, della sapienza e delle memorie?

Flannan, il protagonista delle Memorie di un folletto, è a suo modo ricettacolo della sapienza e delle memorie del suo popolo, nonostante la sua giovane età e della sua apparente follia. (d’altro canto trovo che l’umanità, nel suo complesso, sia ampiamente composta di follia). Anzi, il suo ruolo è proprio quello di professarsi custode delle memorie (d’altro canto, il libro è sotto forma di memorie!), nonostante la persecuzione della cultura irlandese all’epoca in cui si svolge la storia. Il vissuto e le memorie si esprimono anche attraverso la lingua e la tradizione musicale. Flannan è pervicace nel parlare gaelico, anche quando sa che nessuno potrà capirlo, arrivato in Inghilterra, e insiste a far valere il suo diritto di suonare il suo violino e di cantare i canti tradizionali della sua isola.

 Vrargur, uno dei due protagonisti del secondo romanzo (che finirò quest’anno) è in un’altra maniera non direi specchio, ma ancora una volta ricettacolo: le antiche tribù, al suo passaggio, gli fanno offerte votive e gli indirizzano preghiere, e man mano che lui le assorbe, diventa l’ultimo scrigno delle antiche religioni pagane che stanno estinguendosi. I tatuaggi che i saggi e sacerdoti di ognuna di queste culture incidono sulla sua pelle sono una traccia visibile delle memorie che lui custodisce.

Condividi un ricordo particolare della tua vita che possa aiutarci a capire il tuo lavoro nella sua completezza.

Questa è una domanda difficile! Nella sua completezza? Una sfaccettatura del mio lavoro la affiderei a questo ricordo: io, da sola, sotto la pioggia, in giro in bicicletta per le stradine sterrate di Inis Mór, cantando nel vento degli sean nos in gaelico.

Un’altra sfaccettatura: una festa lussuosa in un misterioso palazzo sul Canal Grande, a Venezia, tutti sono in abiti d’epoca, l’unica illuminazione sono le candele, centinaia di candele. Io leggo da ore i tarocchi ai partecipanti alla festa, e segretamente prendo nota dei loro intrighi, dei loro tradimenti, delle loro paure. Tutto intorno a me è bellezza, ma quanto è fragile e infelice l’umanità. (carnevale a Palazzo Pisani Moretta)

Un’altra sfaccettatura: ubriachi fradici, io, un paio di menestrelli ed un cane danziamo di notte (a scelta): per le strade di una piccola città storica (potrebbe essere Venezia, potrebbe essere Dinan, potrebbe essere Galway)/ oppure in un bosco di querce possenti, ricoperte di muschio, illuminate dal bagliore di un falò. È il solstizio d’estate.

Quarta ed ultima: sono sola in una sala dove si ergono decine di statue della dea Sekhmet (ero al museo egizio di Torino). Ma non ho affatto l’impressione di essere sola. Sostengo lo sguardo delle dee furiose, imprigionate nella pietra. Come vorrei liberarle, a costo di essere la loro prima vittima. Mi accerto che il custode sia lontano, e con una mano accarezzo la mano della statua più vicina, seguo il profilo dell’ankh che stringe in pugno, e sussurro il suo nome.

Foto su concessione dell’autore

E come non restare ad ascoltare per ore, una scrittrice che mette così tanta anima nei suoi lavori? Così tanta spiritualità e passione? Il mondo celtico è qualcosa che affascina anche me, anche se nulla supera l’amore per l’Egitto, tanto che mi sono riconosciuta immediatamente nel ricordo sulla sala delle statue di Sekhmet al Museo Egizio. Non a caso, Sekhmet è anche nel mio primo tatuaggio ed è il mio nume tutelare.

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