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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

Estratti editi – Memorie dal buio, La bestia

da | Mar 28, 2022

Foto dal Web

Cusago, 20 gennaio 1784

Pomeriggio

Il crocefisso emergeva dal bianco dei campi innevati con la sua scarna ossatura di bronzo, piegato su un fianco dal tempo e dall’incuria. Con la mano inchiodata pareva indicare proprio il cancello a due battenti, che cigolava pigro a ogni refolo di vento. Le mura di rossi mattoni scrostati apparivano dal nulla, dalla nebbia densa, coi loro ricami di muschio verde brillante.

Un silenzio attonito circondava le case dei morti, chiusi nel loro piccolo mondo, alcune centinaia di passi oltre l’ultima cascina abitata, soli tra le campagne.

Il carro funebre procedeva lento sulla mulattiera che conduceva al modesto cimitero. Le ruote affondavano nello strato di neve fresca di incontaminata purezza, risuonando di scricchiolanti echi in armonia coi passi che le seguivano.

I passi della donna erano fieri e privi di paura, nell’ondeggiare del velluto blu dell’abito patrizio. I muri delle celle e dei corridoi erano intrisi di dolore, sangue e deiezioni umane. Risuonavano delle grida dei condannati e dei lamenti dei moribondi. Nessuno avrebbe aiutato quegli uomini dimenticati, privati di ogni dignità e diritto.

Al becchino pareva un sogno di stare seduto a cassetta di un lussuoso carro, con le pareti di vetro sul cassone, il legno ingrassato e verniciato di nero.

Il tiro era affidato a un giovane cavallo morello dal folto pennacchio sulla testiera, che trottava coi garretti alti e fieri e il capo sontuosamente appoggiato al petto. Era un passo d’alta scuola, che il cocchiere in livrea comandava con semplici tocchi delicati della lunga frusta sui fianchi dell’animale.

«Tutto questo spreco di soldi per una strega», gracchiò il becchino, che raspò con la voce sul fondo della trachea per espettorare un grumo verdastro verso il terreno.

«Taci, villico!» sibilò il cocchiere, fissandolo in tralice con spocchia.

Al becchino non importava nulla dei pensieri di quel cittadino con la puzza sotto al naso. Per la prima volta le natiche non gli dolevano per i colpi della strada sul sedile della carrozza e non sentiva stilettate di dolore per le asperità che facevano dondolare il carro, colpendolo dritto ai lombi.

I lombi della donna, snelli e tonici, vennero messi a nudo dal boia che le strappò l’abito di velluto alla ricerca dei segni da strega. Con meticolosa morbosità le toccò il corpo, indugiando a pizzicarle i capezzoli, cercando con lo sguardo abbietto ogni reazione di dolore o disgusto sul volto della condannata. Il giudice osservava compiaciuto la scena, i testimoni si leccavano le labbra aizzando la bestia che in loro comandava al sopruso e al sadismo. Carne fresca, splendido corpo di femmina da violare.

Quella era una carrozza da gran signori. Il sedile era imbottito di morbida stoffa, trapunto di seta finissima, e gli assali avevano nuove e rivoluzionarie molle arcuate, che rendevano la sospensione delle cinghie molto più flessibile.

Lui se ne intendeva di carri e aveva notato una serie di dettagli innovativi in quel mezzo: sotto gli assali c’era la nuova ruota dentata che, a seconda del peso trasportato, dava stabilità al cassone posteriore, tendendo le cinghie.

Il Boia tirò la cinghia azionando la ruota dentata e le membra della donna si tesero, strappandole un gemito di dolore. Nessuno le aveva ancora fatto domande: quelle sarebbero venute dopo. A loro non interessavano le risposte, solo la visione del suo corpo offeso e vilipeso, sanguinante e mortificato.

Il becchino si rilassò guardando i mulinelli di neve soffice che avevano ripreso a cadere, rendendo l’aria più limpida e asciutta. Solo quando il carro avanzava, creando una lieve corrente, si vedevano i fiocchi danzare nell’aria immobile, per il resto scendevano creando effimeri castelli di ghiaccio sul terreno spigoloso e gelato. In lontananza, Milano si stagliava col suo profilo scuro e, nel silenzio della campagna, gli sbuffi neri dei camini ricamavano orli spettrali sulle basse nubi.

Il fumo scuro del braciere saliva ad accumularsi sul soffitto a volta della cella.

Le pinze stazionavano ormai da un’ora ad arroventarsi sulla graticola, quando il boia le prese, avvicinandole al petto della donna. Con le spalle disarticolate, appesa e appesantita da una palla di ferro ai piedi, non aveva più molta presenza di spirito. Il giudice aveva ordinato per lei il trattamento più spietato, visto che per ore non aveva risposto ad alcuna domanda.

«Sei tu una strega?» le avevano chiesto. «Tuo padre è uno stregone? Un servo di Satana? Tua figlia è una strega? Accusali e il tuo tormento finirà.»

Nessuna risposta.

Lei li avrebbe protetti e difesi.

Milano. Protetta e difesa secondo gli Asburgo. Dominata e tassata secondo i cittadini. Una città nel mezzo delle lande, in una pianura fertile disegnata dalle acque, sostenuta e cullata dalle falde sotterranee che la mano umana aveva modellato dai primi antichi argini sui fiumi, fino ai moderni navigli. I migliori geni, primo tra tutti Leonardo da Vinci, avevano applicato il loro talento a regolare e ottimizzare le acque della pianura in un complesso sistema di canali artificiali. Ed era questo bonum facere di latina memoria, che rappresentava l’ideale più elevato di bonifica. Fare buone opere per ridistribuire il bene più prezioso a memoria d’uomo, l’acqua.

Quando la donna venne immersa nella vasca d’acqua, i più sensibili tra i testimoni al processo erano ormai fuggiti. La vista e l’odore della carne bruciata dei seni straziati, aveva portato la maggior parte dei presenti al limite ultimo di sopportazione. Ognuno aveva un proprio punto oltre il quale l’eccitazione sessuale diveniva disgusto.

Il giudice poteva andare molto oltre, il boia non aveva alcun limite. La esposero. La guardarono come un’opera d’arte, infilarono lerce dita nelle piaghe. Non era ancora abbastanza. Era il momento della soluzione finale. Toccava all’acqua, alla vasca gelida in cui venne immersa.

«Se riemergerai, vuol dire che il diavolo ti aiuta, se non lo farai, morirai e ti dichiareremo innocente.»

La donna neanche aveva ascoltato il giudice. Aveva i piedi liberi e, quando aprì gli occhi tumefatti, sott’acqua, vide un volto amico, soffuso di luce.

Era suo padre, che appariva con ali da angelo e il corpo etereo.

«Vorrei aiutarti, figlia mia.»

«Non puoi padre, sei lontano ora, io ti sto vedendo perché la mia mente fugge dal dolore della tortura, sei la mia dolce illusione.»

«No… sono qui con te. Ci sono stato da quando ti hanno presa.»

«È vero, sei sempre stato con me. E se lo sei anche ora, ascolta le mie ultime volontà. Resta con la piccola, proteggila. Io ho accettato il mio destino. Le ho dato i natali, so che lei farà grandi cose con la tua guida.»

«No, non è giusto, lei ha bisogno di te… io… io ho bisogno di te, ma non posso intervenire.»

«Non devi. L’Equilibrio vuole che io ora vada oltre e che lei trovi la forza di crescere senza di me.»

«Ti porto via! Non mi interessa nulla della Legge dell’Equilibrio o il libero arbitrio e…»

La donna fece cenno di no, respinse la salvezza.

Il giudice e il boia si guardarono straniti vedendo la donna immersa, legata e inginocchiata nell’acqua, trattenere il respiro fissando dinanzi a sé, poi scuotere il capo.

«Ecco, sta parlando col diavolo!» annunciò trionfante il giudice ai testimoni rimasti.

La donna mise un piede sul fondo della vasca e si spinse in alto, riemergendo a respirare, fiera e indomabile.

Foto dal Web

In quegli anni, aperti sul nuovo secolo che giungeva, si leggevano i primi vagiti di una società nuova, moderna, che poggiava i piedi sui nobili ideali di progresso e la traballante elegia dell’Illuminismo, ma che tuttavia graffiava appena la scorza di superstizione e velleitarie usanze dell’Evo Medio.

Superstizioni come quelle sulla stregoneria, demoni e magia che imponevano al becchino di segnarsi in petto e fare scongiuri contro il feretro della «Strega Francese», ogni volta che vi posava lo sguardo.

Il carro si fermò e, quando l’uomo scese, affondò i piedi nel palmo di neve già consolidata.

Per fortuna aveva scavato la fossa il giorno prima, avrebbe faticato poco e incassato una lauta mancia, doveva solo mostrarsi contrito e dispiaciuto per la sorte di quella prostituta fattucchiera.

Non che la conoscesse poi bene, ma se era stata impiccata in Piazza Vetra dall’Inquisizione, qualcosa doveva pure aver fatto.

Del Santo Uffizio non si sentiva ormai più parlare da decenni quindi, pensava l’uomo, se era stato imbastito un processo e una condanna apposta per lei, doveva essere colpevole per forza.

Il becchino si affiancò al cocchiere per estrarre il feretro di mogano scuro dal carro e, quando i due parenti maschi si avvicinarono per caricare in spalla gli ultimi due angoli, l’uomo godette nel dare ordini a due nobili.

Non c’era mai gente al cimitero a quell’ora e non sarebbero venuti per la «Strega Francese», che riceveva la sepoltura in terra consacrata, ma non le esequie cristiane. C’erano solo suo padre e lo zio, che avevano portato il feretro, calandolo poi nella fossa.

Poco distante dalla sepoltura, una donna di mezz’età singhiozzava, tenendo in braccio la figlia della defunta.

Ancora più lontano, vicino al carro, si era rintanato il cocchiere, che teneva un piccolo crocefisso d’argento dritto innanzi a sé, recitando il rosario più a protezione propria che a intercessione per la morta.

Il becchino andava riempiendo la buca con la terra arida e sassosa, in cui si distinguevano piccoli frammenti di ossa e denti di morti antichi, rimescolati nel suolo argilloso. Si adoperava per finire in fretta e sottrarsi a quell’incombenza che giudicava inutile e offensiva per tutti i buoni cristiani che erano sepolti in quel cimitero. Gli stessi che poi profanava frantumandone le ossa mentre lavorava. Fosse stato per lui, avrebbe bruciato la strega e disperso le sue ceneri, ma la famiglia era ricca, tanto valeva prenderne i soldi.

Pecunia non olet, pensò.

Il padre della strega era il sindaco del villaggio, eletto dal popolo per le questioni di ordinaria amministrazione locale, così come eletti erano il cancelliere, per il calcolo delle pressioni fiscali, l’esattore per la riscossione dei tributi in nome dell’Impero Austriaco e il console per l’amministrazione della giustizia. Insieme formavano un quadrumvirato organizzato e preciso per mandare avanti un paese che prometteva di crescere e divenire un centro nevralgico per il commercio della seta grezza.

Il vecchio sindaco non aveva dubbi che, dopo lo scandalo del processo e dell’uccisione della figlia, il suo mandato non sarebbe stato rinnovato, ma non gli importava. Tale era il dolore di quella perdita, da togliergli la voglia anche solo di restare.

In fondo, poteva andare dove voleva, era un «Fermatario del Sale», uno di quei nuovi nobili, ovvero imprenditori, che andavano soppiantando l’antica aristocrazia ripiegata sui fasti passati, incapace di amministrare, gestire e far fruttare gli enormi possedimenti.

Il governo conservava gelosamente il monopolio del sale e lui aveva ricevuto l’appalto per la vendita e distribuzione del prezioso materiale che, insieme a tutto ciò che era esotico, veniva importato da Venezia e dall’oriente, giungendo lungo il Po, poi sul Ticino fino a Bereguardo, dove iniziava la «Via del Sale», verso Milano.

Nessuno però sapeva che le ricchezze dell’uomo venivano da un onesto commercio. Per tutti ora era solo il padre degenerato di una levatrice condannata dall’Inquisizione come strega, giustiziata e lasciata appesa dieci giorni come monito.

All’uomo non importava nulla dei rumori del volgo, era facoltoso abbastanza da comprare alla figlia un loculo degno del ricordo, invece che un’anonima fossa comune, in cui la voce astiosa del popolo l’avrebbe voluta condannare.

Eppure non dubitava che, di lì a poco, qualcuno sarebbe venuto a profanare i resti, in sfregio o alla ricerca di reliquie magiche da rivendere ai morbosi collezionisti.

Milano non distava che sei miglia da Cusago, ma a volte sembravano separati da interi continenti e l’anziano, nel guardare verso la città, pensò di abbandonare quel paese di contadini superstiziosi che era stato la loro casa per cinque anni.

Neanche sapeva perché sua figlia avesse scelto proprio quel paese per fermarsi dopo il viaggio da Arles en Provence.

«È un segno, so che devo stare qui, ma non so perché. Gli spiriti mi indicano questo luogo», gli aveva detto sorridente e lui l’aveva accettato, come sempre.

In fondo era il suo protettore, non il suo padrone.

La bella Marie Claudine Darcy era proprio una strega, un druido per la precisione, custode degli antichi segreti della foresta, dell’energia della terra, della magia delle erbe guaritrici e delle pietre. E lui avrebbe piantato sulla sua tomba le sue essenze preferite: la malva che purificava, la camomilla che rilassava, il rosmarino che leniva.

Marie Claudine era anche una levatrice paziente, esperta, sensibile, capace di sollevare le donne dal dolore del travaglio e di restituire alla vita i neonati che altri avrebbero dato per spacciati.

L’anziano guardò le lapidi del cimitero. La cappella della ricca famiglia Aliprandi, custodi del Castello Visconteo. Ma anche il tumulo matrimoniale dei coniugi Stampa, parenti lontani del Marchese Stampa di Soncino, che era proprietario del paese e della maggior parte dei boschi adiacenti, sulla cui pietra orizzontale si ergeva un angelo dalle ali e le braccia stese, in segno di benedizione.

Gli occhi del vecchio si fermarono a contemplarlo con un velo di tristezza.

«Nonno Draco…» La vocina sottile della bambina lo richiamò dai suoi cupi pensieri. Lui la guardò in quei profondi occhi verdi che spiccavano sulla pelle chiara, incorniciata dalla cascata di boccoli rossi.

Amava quella piccola, anche se non riusciva a dirle la verità e ad ammettere che, come protettore, era stato un fallimento.

Draco aveva adottato Marie Claudine il giorno stesso della sua nascita e non aveva mai avuto il coraggio di confessarle di non essere il suo vero padre. Ma la amava come se lo fosse, su questo non c’erano ombre. La amava come ora amava la sua nipotina che, senza mai aver conosciuto il padre, veniva privata anche della madre. Nel giorno del suo sesto compleanno, invece di festeggiare con dolci e regali, era costretta ad assistere al funerale della mamma.

«Cosa c’è, Topina?» le chiese avvicinandosi a Dinetta, l’amica in lacrime, la collega levatrice, per prendergliela dalle braccia con un muto ringraziamento.

Il corpicino della bambina era più piccolo rispetto ai sei anni che aveva, minuto e magro anche col cappottino di lana imbottita di pellicciotto.

L’anziano osservò il becchino premere coi piedi il cumulo di terra e batterlo con il piatto della pala, quindi fece un cenno all’altro parente, lo zio, affinché allungasse all’uomo il saldo della spesa e una cospicua mancia.

Consegnando il denaro in più, venne rinnovata la raccomandazione a vegliare la tomba dai malintenzionati fino alla deposizione del marmo della lapide.

L’uomo, gretto e sporco, soffiò dal naso una caccola con una contrazione rapida dell’addome e incassò i soldi, rubandoli quasi dalla mano dello zio.

«Sarà fatto, signori Darcy», rispose con evidente stizza.

A occhi bassi continuò la sua opera, lasciando poi spazio a Dinetta per deporre dei fiori secchi, intrecciati in una corona, sul cumulo di terra.

L’anziano si allontanò col fratello e con la piccola in braccio, che da oltre la sua spalla guardava il tumulo allontanarsi.

«La mamma avrà freddo lì dentro, tutta sola?»

Le lacrime si gonfiarono negli occhi neri dell’anziano e lui quasi si stupì della facilità con cui sgorgarono. Le asciugò con la mano, le guardò, sgranandole sui polpastrelli, ma non riuscì a rispondere alla bambina.

Il fratello gli posò la mano sull’avambraccio, in segno di conforto, prima di affrettare il passo e chiudere i conti anche col cocchiere.

Il nodo di commozione che serrava la gola del nonno gli impediva di parlare, così lo fece la piccola, senza smettere di guardare la tomba che si allontanava man mano che i passi la portavano verso l’uscita del cimitero, immerso nel silenzio gelido dell’inverno padano.

«Tu non mi lascerai, vero?»

«Perché questi pensieri, Cécile?» Draco la strinse a sé e gli occhioni verdi della piccola si riempirono di lacrime che soffocò contro i lunghi capelli morbidi del nonno, biascicando le sue paure in parole singhiozzanti.

«La mamma se n’è andata, mi ha abbandonato e, se mi lasci anche tu, io come farò?»

«La mamma non se n’è andata. Non ti avrebbe mai lasciato. La mamma è stata uccisa da uomini cattivi. Non darle colpe, perché ti ha difeso e amato fino alla morte.»

La bambina era abituata al parlare schietto del nonno e considerava verità assoluta qualsiasi cosa uscisse dalle sue labbra.

Lo adorava, così alto ed elegante, con quei lunghi capelli setosi e lisci che profumavano di sapone; con la voce profonda e rilassante, che la ipnotizzava quando le leggeva le storie prima di addormentarsi; con gli occhi così neri che a volte lei stessa ci si perdeva dentro.

«E tu non morirai anche se sei vecchio?» gli chiese.

«Io non morirò, hai la mia parola, Cécile.»

E lei gli credette, senza alcun dubbio.

Avanzarono lungo lo stradino che tagliava le marcite sorte tutto attorno al cimitero, tornando verso il paese. I fiocchi divennero più fitti, annichilendo e schiacciando la nebbia che si addensava proprio a partire da quei fertili campi che emettevano debole calore. La densa bruma poté solo artigliare le ginocchia, poi le caviglie, poi dovette soccombere al gelo secco della neve.

Un contadino, magro e curvo, con gli zoccoli di legno immersi nell’acqua fredda, era intento a tagliare con una falce la stentata erba invernale che la marcita concedeva. Non fosse stato per la sua triste canzone in dialetto e per il cappello di lana, sarebbe sembrato una caricatura paesana della morte stessa.

Quando il trio gli passò accanto, seguito da Dinetta che arrancava a tenere il passo con le gambe grassocce, l’uomo si tolse il berretto e si fermò nel lavoro.

«Condoglianze, Sindaco Darcy.»

Era il primo che gliele faceva in tutto il paese. Neanche le campane avevano suonato a morto.

Non per sua figlia, non per la «Strega Francese».

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