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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

Estratti inediti – L’abito della signora 2

da | Set 23, 2022

Ormai ci siamo, è questione di poco e il romanzo storico L’abito della Signora sarà dato alle stampe. In un articolo precedente ho postato l’incipit del romanzo, oggi vi offro un ulteriore assaggio. Caterina è a bordo della carrozza della ricca Bianca Milesi, presso la quale suo fratello Carlo lavora. Il ragazzo ha il compito di condurla a casa della Contessa Frecavalli per la consegna dell’abito che hanno confezionato per lei. Caterina sta per conoscere due delle donne che hanno fatto la storia del Risorgimento.

Foto dal Web

Quando la carrozza partì, Caterina iniziò a sobbalzare sulle asperità del terreno, ma anche quando la corsa procedeva armonicamente, lei si spostava impercettibilmente sul sedile, fuggendo in risposta alle voci all’esterno, un pianto di bambino, un grido di mercante, il richiamo di uno strillone.

Carlo condusse il mezzo con perizia, raggiungendo il ponte sul Naviglio e, quando la carrozza salì sull’arco di pietra, Caterina trovò il coraggio di spostare appena le cortine per sporgersi a guardare quel fiume artificiale che circondava il centro città come un anello.

La carrozza si lasciò alle spalle quella parte di abitato, pur compresa tra le mura, che era ancora dedicata all’agricoltura, in cui si respirava spazio e libertà, per entrare nella città vera e propria, di cui i quartieri come il loro erano piccole metastasi, che andavano crescendo attorno alle vie principali dirette verso le porte.

Ve n’erano tante in quelle mura spagnole e quella più vicina a loro, Porta Ticinese, si apriva sulla vasta darsena in cui confluivano i navigli leonardeschi che giungevano a Milano e ne ripartivano, garantendo a quella zona una vivace rete commerciale.

Carlo scansò le vie in cui i mercati erano più attivi e condusse la carrozza nelle strade più larghe, fino a immettersi, con altre vetture, tra ronde di soldati austriaci e carretti di commercianti.

Quando arrestò la pariglia di morelli, scese con un balzo e le aprì lo sportello: «Ci siamo sorellina, il portone è già chiuso», specificò, riuscendo così a metterla a suo agio nel vasto cortile. «Questa è la casa della contessa Maria Frecavalli.»

«E se avessimo sbagliato le misure?» chiese lei, titubante con un piede sul predellino. «In fondo non l’ho mai vista, mi ha mandato misure e denaro tramite la cameriera. E se ci fosse il marito? Non potrei…»

«Non ha marito. A soli trentadue anni è già vedova del Cavaliere Venceslao Frecavalli. Quanto all’abito sarà perfetto, come sempre, ora scendi o ci congeleremo qui.»

Carlo le prese la mano tirando con forza bastante a farla scendere e la accompagnò all’ingresso secondario dove il maggiordomo, un silenzioso e agile uomo di mezz’età, le offrì un saluto formale, la prese in consegna e la condusse nel salotto della sua padrona, cui la annunciò: «La signorina Caterina Casati.»

Ora che la sarta poteva fissare la committente, ne rimase turbata.

Maria la colpiva per il suo aspetto forte e deciso, che traspariva dalla sicurezza con cui posava seminuda in un’ardita contorsione del corpo, come rappresentazione dell’Italia che lotta e la ragazza rimase impalata sull’uscio, con le labbra socchiuse di stupore nel vedere con quale mancanza di pudore l’accogliesse.

Maria spostò giusto gli occhi verso di lei: «Accomodatevi pure signorina Casati. Sarò da voi non appena il mio schiavista mi libererà da questa postura incomoda.»

Si riferiva al pittore che, di spalle all’ingresso, terminava la definizione della dinamica del braccio che raccoglieva la bandiera da terra, col rosso intinto nel sangue dei morti, in quello che pareva uno scontro di piena guerra civile, tra case e vicoli di una città, resa meno anonima dal suggerimento delle inconfondibili guglie del Duomo sullo sfondo ancora incompleto.

«Servitevi della cioccolata, se gradite, o anche dei biscotti, non fate complimenti», aggiunse, senza preoccuparsi di sistemare la tunica con cui posava, che lasciava scoperto uno dei seni.

«Grazie mia signora, sono a posto così», disse Caterina appoggiando il sacco di lino su una poltrona, per poi prendere posto sull’altra.

Nella stanza c’era un caldo fastidioso, a causa delle stufe, del camino e di vari candelabri e bracieri, che dovevano mantenere la zona luminosa e calda per la modella.

Caterina attese in silenzio, fissando le spalle esili del pittore, che indossava un cappello floscio con una piuma di struzzo, quasi fosse un attore di teatro shakespeariano.

Dopo una decina di minuti, l’artista posò i pennelli: «Fatto mia cara. Ora puoi rilassarti», disse e Caterina si stupì di sentire una voce femminile. La pittrice si pulì le mani con lo straccio. «Puoi anche rivestirti. Oppure no.»

Le due risero e Maria si avvicinò a Caterina, limitandosi a sollevare la spallina della tunica, in modo da coprire il petto. «Perdonate l’attesa signorina Casati, attendo con ansia di vedere l’abito che avete confezionato per me, ma vedo che portate il velo del lutto, le mie condoglianze, cara. Chi avete perso, se posso chiedere?»

«Mia madre è cugina del Maestro Carlo Porta. Per lui portiamo il lutto», disse lei a testa bassa.

La donna aprì le labbra in un’ovale di stupore e scambiò un’occhiata con la pittrice. «Capisco, la sua morte è una tragedia per tutta Milano e per noi libere pensatrici in particolare. Carlo è stato un grande amico e ispiratore, il suo salotto culturale ci ha ospitate più volte. Nel pomeriggio andremo anche noi alla veglia. Vogliate intanto portare le nostre condoglianze anche a vostra madre.»

Caterina alzò gli occhi sulla ninfa svestita e rispose semplicemente: «Sarà fatto, grazie mia signora.»

«Com’è piccolo il mondo», disse con un sospiro. «Ebbene, capitoliamo in argomenti più frivoli, volete mostrarci l’abito? Vieni cara schiavista, so che non è il tuo stile di abbigliamento, ma potrai darmi un parere.»

La pittrice si alzò dallo sgabello e si voltò.

Foto dal Web, Bianca Milesi

Era ancora più particolare di Maria, perché vestiva da uomo, con un completo di lana scura e portava i capelli corti, col taglio maschile e una vistosa zazzera sulla fronte che faceva risaltare ancora di più il viso triangolare, dal mento leggermente sfuggente.

Ai piedi calzava scarponi militari, che le imponevano una camminata sgraziata, grezza e rumorosa.

«Dunque siete voi la sorellina del caro Carlo?» disse la pittrice.

Caterina accennò una riverenza. «Sono io mia signora, Caterina Casati, per servirvi.»

«Ho sentito Carlo parlare con la mia cameriera e magnificare le vostre doti di sarta, per convincerla a farsi fare l’abito da sposa da voi e ho chiesto di vedere i vostri figurini. Ne sono rimasta estasiata. Come vedete, io vesto in modo non convenzionale, ma ho pensato subito che Maria potesse avere piacere in un vostro capo.»

Caterina rimase di sale davanti alla scoperta. «Voi dunque avete fatto il mio nome alla signora Frecavalli? Vi ringrazio dell’opportunità.»

La pittrice controllò di avere le dita pulite, poi tese la mano a Caterina. «Se non mi presento io, qui non lo fa nessuno. Bianca Milesi, molto lieta di conoscervi.»

«P-piacere mio», balbettò emozionata, stringendole la mano alla maniera maschile, così come le era stata offerta. «Carlo mi ha parlato molto di voi. Siamo onorati che egli svolga servizio presso ls vostra nobile casa.»

«Immagino come possa definirmi», e sorrise. «Come tutti del resto. Se mi va bene sono una donna un po’ particolare, se mi va male sono l’energumena!»

Nel vederla così abbigliata, da operaio più che da nobildonna, Caterina capì la definizione che le era stata cucita addosso e che Carlo le aveva intimato di non farsi mai scappare in sua presenza.

L’energumena.

«In vero, mia signora, non ha che parole di lode per voi e vi ammira, biasimando chi vi appella in maniera irrispettosa.»

Maria sembrava non resistere più alla curiosità, mentre accarezzava il monogramma ricamato: «Suvvia, veniamo al mio abito. Cosa significa questo stemma?»

«Oh, mia signora, lo ha inventato mia madre. Le C rappresentano il nome di tutti noi Casati. Nostro padre e noi abbiamo nomi che iniziano per C.»

«E l’edera e le rose?»

«L’edera rappresenta la famiglia Casati, che si aggrappa a qualsiasi cosa e riesce sempre a sopravvivere, mentre la rosa rappresenta la famiglia di mia madre, i Porta che nascondono spine nella beltà.»

Bianca sorrise mentre armeggiava con i nastri di chiusura. «Curiosa scelta. L’edera è un parassita di altre piante di cui succhia la linfa, la rosa con le spine sottolinea una doppia faccia. È dunque così che siete?»

Caterina sbiancò e rimase con la bocca aperta e il mento tremante.

Nessuno aveva mai fatto notare quell’ambiguità nel simbolo della sartoria, che ora gettava discredito su di loro, invece che ammirazione.

«C-certo che no, mia signora», disse solo, abbassando lo sguardo.

Maria diede una gomitata all’amica, per farla tacere e aprì l’involto di lino. «È il primo abito da sera che confezionate?»

«Il primo per una contessa come voi», disse la sarta, riprendendosi dall’imbarazzo pian piano, mentre Maria, coi suoi sorrisi, cercava di rimetterla a suo agio. «Ho confezionato abiti per le signore della borghesia e un paio di costumi teatrali rinascimentali per il Teatro alla Scala» e, vedendo che la cosa non suscitava ammirazione, aggiunse. «U-un giorno Lord Byron entrò nel nostro negozio e ci chiese un rammendo», terminò lei, aiutando la nobile a distendere le stoffe.

«Un rammendo?» chiese Bianca e, dal suo sorriso sarcastico, Caterina capì che non fosse qualcosa di cui vantarsi negli ambienti facoltosi, nonostante la fama del committente.

Arrossì.

Era sotto pressione e avvampò imporporandosi il petto, il volto e la punta delle orecchie, senza poterlo impedire o controllare.

Per fortuna, Maria riempì il silenzio imbarazzato distendendo l’abito, che si rivelò subito in tutto il suo splendore, con la seta cangiante color lavanda che ricadeva in morbidi panneggi sulla poltrona, svelando pian piano i dettagli dell’abile lavoro sartoriale.

Perfino la pittrice, che cantava ambigua fluidità in ogni sua movenza, rimase a bocca aperta: «Mia cara Caterina, è splendido, mi fate tornare voglia di vestirmi da civetta di nuovo!»

Maria rise e le rispose con condiscendenza: «Bianca, guarda che essere femminista non vuol dire per forza rinunciare all’eleganza!»

«È seta giusto?» chiese Bianca.

«Seta dei maestri di Como», ammise Caterina con un cenno. «L’ho tinta personalmente, non troverete un bagno di colore simile presso alcun’altra dama.»

Bianca non sembrò colpita: «Non è una stoffa in voga, ma ammetto che scivola sulla pelle con una sensualità accattivante. Provalo subito Maria, voglio vedere come ti sta!» invitò l’amica, armeggiando con la tunica per denudarla lì sui due piedi.

Maria non si scandalizzò e non si fece pregare, sfilando la tunica per restare solo con le culottes di candido lino.

Non chiamarono cameriere o governanti, fecero tutto loro, con l’aiuto di Caterina e, quando la ragazza chiuse il cinturino sotto il seno, tirò un sospiro di sollievo.

La taglia era perfetta e le avvolgeva il corpo snello senza stringere o limitare i movimenti.

Era solo un po’ lungo, ma la donna era scalza e, con una giusta scarpa ai piedi, tutto si sarebbe aggiustato.

Maria fece una piroetta, poi andò a guardarsi riflessa nei vetri di una credenza.

Bianca si accomodò sul divano, accavallando le gambe in maniera decisamente maschile, con la caviglia destra sul ginocchio opposto. «Quelle pieghe sono perfette.»

«Le plissettature?» corresse con discrezione Caterina.

«Già. Sembrano piccole tasche interne, molto utili e segrete.»

Caterina non sapeva cosa rispondere, come interpretare quelle osservazioni e leggeva sul volto triangolare e delicato di Bianca, tutta la sua concentrazione e i pensieri che le scorrevano nella mente.

Alla fine la donna li esternò con un mugugno: «Mh. Napoleone è in esilio da cinque anni e mezzo e ancora usiamo questa moda classica tipica del suo impero. Credo sia il momento di cambiare.»

Maria smise di pavoneggiarsi e lasciò ricadere le mani sconsolate: «Ma se ho appena comprato un abito nuovo!»

Bianca già non guardava più l’amica, ma direttamente Caterina. «Stupitemi!» e le gettò davanti il proprio blocco da disegno.

Caterina rimase un istante intimorita da quella richiesta, poi tolse il carboncino dall’asola di cuoio e iniziò ad abbozzare la figura femminile.

Sebbene l’avessero appena conosciuta, alle due donne fu evidente che la ragazza, così timida nelle normali ciarle da salotto, si trasformasse quando era al lavoro e superasse ogni imbarazzo nello sfoggio naturale del suo talento artigianale.

Aveva perfino smesso di balbettare: «Il recupero dello stile classico greco ha completamente dimenticato le asimmetrie delle tuniche antiche e la semplicità delle stoffe che venivano drappeggiate, strette da cintole e cucite il meno possibile.»

«E questo come lo sapete?»

«Ho… ho guardato dei vasi e delle coppe a una mostra sull’arte greca. Li ho copiati e studiati.»

«È questo il vostro modo di procedere?»

«Sì, mia signora. Anche per i costumi teatrali, ho guardato arazzi medievali e illustrazioni su libri.»

«Interessante approccio», disse facendole cenno di proseguire nel disegno.

«Ecco, notate la particolarità. Finora abbiamo indossato abiti che sottolineano solo il seno», arrossì un poco sulle gote, «così influenzati dalla predilezione di Napoleone per questa parte del corpo femminile. Lo abbiamo lasciato scoperto in una profonda scollatura quadrata, sostenuto, mostrato fin quasi ai capezzoli, a scapito del resto del corpo, nascosto invece dalle linee verticali della gonna, quasi fossimo tutte delle colonne del Partenone.»

Terminato il manichino base, prese a vestirlo. «Quello che vorrei vedere io indosso alle donne, è qualcosa che sottolinei di nuovo il busto, i fianchi e la vita, mostrando la perfezione del corpo femminile e delle sue curve, tutte le curve.»

«Quello è un corsetto? Volete tornare allo stile dell’Ancien Régime?» chiese Bianca, arricciando il labbro in un moto di contrarietà.

«Può esserci un corsetto sì, oppure un semplice irrigidimento del corpino dell’abito, giusto per farlo cascare bene, ma non tralasciate il fatto che le dame più corpulente desiderano essere strette da un corsetto che renda più appetibili le loro forme e non le faccia assomigliare a damigiane vestite a festa. Soprattutto vorrei giocare sui volumi delle gonne e delle sottogonne senza crinoline o enormi armature. Voglio che la donna lavori, cammini, balli o scali una barricata con questi abiti!» dichiarò, tagliando però la lunghezza dell’abito sopra la caviglia.

Posò il blocco davanti a Bianca e anche Maria si sporse a guardare il modello, con una gonna così corta che tutto il piede sarebbe rimasto scoperto.

«Interessante», disse la pittrice, che fissò la sarta con sguardo inquisitorio.

Caterina attese un po’ per riempire quel silenzio imbarazzante: «Se mettiamo in evidenza il seno, stiamo parlando di donne viste solo come madri. Se mostriamo le spalle, i fianchi e, soprattutto, i piedi e diamo loro modo di potersi muovere senza l’aiuto di un servo o di un uomo, diamo loro libertà.»

Le due signore si guardarono con un cenno di intesa, sottolineato da un sorriso ambiguo, poi Bianca si sporse in avanti: «Mi piace quello che dite e come lavorate, Caterina. Per voi ho due proposte. La prima è un abito. Proprio quello che avete disegnato ora, per il quale vi darò le mie misure e un anticipo per le stoffe domani stesso. La seconda è che veniate a consegnarmelo voi stessa, il mese prossimo, nel giorno che vi indicherò. Credete di riuscire in un mese a confezionarlo?»

«U-un abito?»

La ragazza soppesò la proposta, con la sensazione che Bianca la stesse mettendo alla prova per qualche motivo.

Quando alzò gli occhi, c’era una fiera determinazione nel suo sguardo.

«Accetto la commissione.»

Foto dal Web, Matilde Viscontini

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