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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

Estratti inediti – Memorie dal Buio, Meretrix

da | Dic 15, 2021

Foto dal Web Stemm papale di Rodrigo Borgia

Roma 1495 – Inizia qui il secondo romanzo della saga di Memorie dal Buio e lo fa con alcuni personaggi già conosciuti ne “la bestia” e con altri nuovi. Siamo nella Roma di papa Rodrigo Borgia, il toro fecondo e sensuale di Valencia che ha segnato uno dei momenti di più infima spiritualità della chiesa. Tre anni prima, Colombo ha scoperto l’America, ma ancora nessuno ha compreso la portata dell’importanza di quel viaggio: gli occhi dell’Europa sono puntati sulle guerre di successione al trono di Costantinopoli, allo spettro di una nuova crociata, di una invasione ottomana in occidente, alla certezza di una calata delle potenze europee nella penisola italiana, a caccia di ricchezze, territori e conquiste. C’è solo l’imbarazzo della scelta: spagnoli, sacro romano impero o francesi? A voi un estratto del capitolo 3

CAPITOLO 3

«Ogni uomo può dire quante oche o quante pecore possiede, ma non quanti amici.» (Cicerone)

Roma, 25 febbraio 1495 pomeriggio tardo

«Prendi il tuo lavoro di ricamo Sarah», disse la donna, rifilandole in mano un piccolo telaio tondo in cui era teso un finissimo lino bianco, con un lavoro appena iniziato e anche con poca perizia.

La ragazzina sbuffò, sedendosi composta vicino alla finestra, ago in mano, fissando il viavai di gente che affollava Piazza Santa Maria Rotonda, dominata dal Pantheon, riconvertito a chiesa cristiana.

Il loro palazzo ne cingeva il fianco destro, facendo angolo con la piazza stessa.

Un palazzo nobile e costoso in un luogo invidiabile e ambito, soleggiato e salubre.

«Perché non posso invece leggere un libro? Io scrivo novelle e poesie, leggo e ho una buona cultura, anzi ottima per la mia età. Invece mi date in mano tela e ago. Sapete che sono negata per il ricamo!» Piagnucolò capricciosa.

«Una ragazza che legge spaventa. Ci si chiede cosa potrà mai fare una donna colta. Meglio che ti sottovalutino.»

«E dovrò vivere con una maschera tutta la vita? Non potrò mai essere me stessa?»

«Sarai te stessa tra noi, in famiglia, ma la maschera che porterai in pubblico potrebbe essere la tua sola difesa in questo mondo.»

La madre era così, intransigente, esigente, a volte dura nell’educazione; negli ultimi tempi tra di loro si era instaurata quella palese e feroce guerra generazionale che vedeva la ragazza contestare ogni decisione della madre e la donna stringere sempre di più le maglie della formazione della fanciulla.

La ragazza sbuffò spazientita e tornò a guardare fuori dalla finestra.

Una portantina stava giungendo lungo la piazza, attorniata da questuanti in miseria e pellegrini sperduti e stava puntando dritta al loro portone; di sottecchi Sarah apostrofò la madre: «Chi ci sta venendo a trovare? Qualcuna delle vostre amiche?»

«Sai che io non ho amiche, solo convenienti conoscenze», ribatté la donna che si pose eretta alla scrivania con un libro in mano, aperto su una pagina qualsiasi, «e comunque è Vannozza de’ Cattanei.»

«L’amante di Papa Alessandro VI!» Disse Sarah allargando gli occhi di stupore.

«L’amante che fu, ormai Sua Santità si diletta in più giovane talamo, quello di Giulia Farnese, ma noi non lo faremo pesare alla nostra ospite. Se è venuta qui, è perché vuole qualcosa da noi. Ricorda mia cara, se il diavolo ti accarezza, è perché vuole la tua anima.»

Rachele era una splendida donna nella seconda metà dei trent’anni, con le forme perfette sottolineate da un lungo abito di velluto damascato blu.

I capelli neri erano stati tinti con dell’infuso di castagne che andava a coprire di rame brillante i radi fili bianchi che si mostravano nella scriminatura dell’acconciatura.

Morbide trecce partivano da dietro le orecchie facendo corona attorno al capo.

Dinanzi, la riga divideva la chioma a metà; dietro, alla treccia era assicurato un intreccio a rete di seta cui erano cucite perle a ogni nodo.

La giovane figlia, quindicenne, aveva i capelli ondulati come la madre, ma di un nero scuro, lucido e a tratti quasi bluastro, ben armonizzato ai suoi occhi verdi, che viravano al nero vicino alla pupilla in una screziatura affascinante nella sua complessità.

Di spiccata somiglianza somatica, entrambe avevano lineamenti piacevoli e pelle delicata e bianca, ma la madre portava i segni della vita vissuta in un’antica cicatrice sul dorso della mano destra che si perdeva oltre il polsino dell’abito.

Una cicatrice da ustione.

Le ciocche brillanti e libere di Sarah, portate scarmigliate come si conveniva a fanciulle ancora acerbe e non maritate, ondeggiavano allo spiffero insolente che filtrava dalla finestra assolata; gli occhi chiari percorrevano l’ordito del ricamo, senza tuttavia metterci impegno.

«Ahia! Guardate madre! Il mio sangue offerto in olocausto al lino!» Disse la ragazza con la retorica di un bardo, mentre si succhiava il dito in cui l’ago aveva scavato una ferita. «È ridicolo che io debba fingere di saper ricamare come tutte le brave fanciulle, quando non so neanche tenere un ago!»

«Non importa, tu fingi di farlo con dedizione e accortezza e intanto ascolta l’arte del dialogo tra gentildonne. Poi ti interrogherò. Non credere che io sia entusiasta di averla qui.»

«Ma se vi sta così antipatica, perché la riceviamo?»

«La ricevono tutte», sospirò la madre con un’alzata di spalle.

La fantesca Giuditta introdusse Vannozza che si baciò sulle guance con Rachele due volte, a destra e sinistra.

Sembrano due gatte che si stiano prendendo le misure prima di attaccare alla gola, pensò Sarah, trattenendo una risatina.

Vannozza aveva una figura tornita seppur ancora avvenente, per lo meno con tutte le impalcature dei bustini e delle corsetterie.

I suoi cinquant’anni ormai passati si facevano sentire tuttavia nella rilassatezza dei tratti del volto e del petto, ma il crine biondo oro celava l’argento della vecchiaia con maggiore discrezione di quanto accadesse nelle more come Rachele.

La giovane Sarah si esibì in un formale inchino, poi riprese il suo lavoro, apparentemente assorbita in esso.

Vannozza prese a girare per la stanza, soppesando gli arredi, i libri, il lavoro di ricamo della ragazza, prendendo il tempo necessario a far crescere la curiosità e la preoccupazione nella sua interlocutrice: «Mia carissima amica, è un piacere per me oggi farti visita, da troppo tempo non ci scambiamo simili cortesie.»

«Ahimè il tempo è tiranno», rispose Rachele, seguendo una recita che pareva quasi codificata e chiuse con grazia il libro. «E ditemi, cara Vannozza, siete qui per portarmi notizie o per apprenderne?»

«Entrambe le cose. Sapete anche voi che nel nostro mestiere si dà e si prende in egual misura.»

«In vero il segreto è prender molto elargendo poco, ma ora destate la mia curiosità», e fece un cenno con la mano per chiamarla al suo fianco come fosse il tempo delle confidenze o, per lo meno, per impedirle di esplorare e giudicare oltremodo la stanza, «ditemi tutto.»

«Prima voi dovete dirmi una cosa», la interruppe Vannozza con l’aria furba.

Sarah capì dal modo che ebbe la madre di serrare le mani in grembo, che la schermaglia era iniziata.

Una delle prime lezioni che le aveva impartito, era di non gesticolare mai e per quella, come per altre mille accortezze, ora rivedeva ogni parola di Rachele messa in pratica.

«E cosa potrei mai dirvi io che non partecipo della vita mondana?»

«Innanzitutto come sta il vostro protettore?»

Vannozza mise a segno il suo primo dardo, perché Rachele si lasciò sfuggire uno sguardo preoccupato verso Sarah, prima di ricomporsi e affrontare la sua avversaria.

«Non saprei, mia cara, è più probabile che lo sappia Sua Santità, potreste chiederlo a lui la prossima volta in cui vi chiamerà nelle sue stanze.»

Rachele aveva risposto con un colpo rovescio a tradimento che sottolineava l’estraneità cronica di Vannozza all’intimità col Papa.

Le due donne si scambiarono un sorriso a denti stretti, poi l’ospite riprese: «E come sta vostro figlio Davide? So che s’accompagna sempre a quella Guardia di Castel Sant’Angelo.»

«Oh, bravate di gioventù, quel gruppo di coetanei ama far bisboccia, ma non mi posso lamentare del mio ragazzo, i suoi studi sono assai proficui.»

«È vero, a volte dimentico che studia come Pratico.»

«Archiatra», corresse Rachele e l’altra ammise con un semplice cenno del capo.

I primi colpi di scherma erano andati a segno e la lotta entrò nel vivo: «Sono venuta per chiedervi il permesso di invitare vostra figlia presso di noi. Lucrezia avrebbe tanto piacere a rivederla e a passare con lei qualche giorno a Ostia.»

Sarah si drizzò sulla sedia, prestando maggiore attenzione al dialogo e la madre la fulminò con lo sguardo.

Aveva commesso l’errore di lasciar trapelare i sentimenti e questo, in una tenzone verbale, l’avrebbe messa in difficoltà.

Tornò a fingere di ricamare, cercando di mettere in fila dei punti che avessero almeno una parvenza di decoro.

«Non sapevo che Lucrezia fosse tornata. Non ho visto alcuna processione di carrozze. O forse ha lasciato il marito a Pesaro?»

«Non abbiamo reso noto il suo ritorno, ufficialmente passerà la Santa Pasqua con il marito, tornando a Roma dopo la settimana santa. In vero è venuta prima perché sta soffrendo di nostalgia. Da qui la mia richiesta di portare Sarah con noi a Ostia. So quanto mia figlia sia affezionata alla vostra, madonna Rachele.»

«Non è che una fanciulla ed è già maritata. Posso capire la sua nostalgia di Roma e della famiglia.» Vannozza annuì: «Maritata, ma non completata nelle sue gioie di moglie. Il matrimonio non è ancora stato consumato. Giulia e Adriana hanno vigilato bene a Pesaro perché Sua Santità ha fatto mettere per iscritto la clausola segreta che la fanciulla non venisse spiumata prima dei quindici anni di età.»

«Non mi pare il caso di continuare simili discorsi licenziosi dinanzi a mia figlia», osservò Rachele, alla quale Vannozza rispose con un ghigno da faina.

«Mia cara, in fondo stiamo parlando di privazione e rifiuto del sesso, non della sua legittimazione.» Vannozza era sicuramente un’abile oratrice, ma Rachele non era da meno.

Tra un sorso di rosolio, dolci di mandorle e castagne, entrambe dosavano parole e pause, cercando di portare l’altra su un terreno fragile, per ottenerne pettegolezzi o materiale di scambio e ricatto.

Il volto di Vannozza calzava una maschera d’attrice con tale precisione, che non si poteva distinguere una sola sbavatura espressiva che lei non volesse precisamente far trapelare.

«Il compleanno di Lucrezia si avvicina, in effetti», fece notare Rachele.

«Sarà il sabato Santo, esattamente, un mese dopo quello della vostra.»

Rachele lasciò passare un congruo numero di istanti che parevano sottolineare la coincidenza e alla fine sentenziò: «Suppongo che ogni madre farebbe di tutto per i propri figli. Specie se il proprio genero minaccia di venir meno ai voti. E non mi riferisco a quelli coniugali.»

«Giovanni è uno Sforza, avevamo messo in conto che potesse simpatizzare per Ludovico il Moro. Tuttavia è un vassallo dei territori della Chiesa.»

«Un vassallo che ha l’esercito di Re Carlo VIII a un tiro di balestra da casa. Un vassallo che ha veduto cosa quel francese è in grado di fare, quanto a spietatezza e ingordigia. Un vassallo il cui zio ha già strizzato l’occhio ai francesi.»

«So dove volete arrivare, madonna Rachele. Un vassallo che potrebbe voler usare la figlia prediletta del Santo Padre come merce di scambio e ricatto, mentre a Roma sarebbe protetta.»

Per un poco Rachele non disse altro, poi affondò la stoccata finale: «Madonna Adriana e Madonna Giulia non bastavano a farle compagnia?»

«Sono rimaste a lungo l’anno scorso, un po’ per la melancolia in cui Lucrezia era caduta, un po’ per vigilare sull’illibatezza imposta dal contratto. Ma si erano trasferite a vegliare il fratello di Giulia, morente e poi sono state fatte prigioniere dai francesi; da quando sono rientrate a Roma, il primo di dicembre, Sua Santità non le lascia più ripartire. Specie Giulia. Non può certo spendere altri tre mila ducati di riscatto.»

Rachele aveva recuperato lo svantaggio, ponendo l’accento sul fatto che Vannozza ormai non era più nelle grazie del Papa, sostituita da carne giovane, Giulia Farnese e che anche l’educazione della figlia Lucrezia era affidata non a lei, ma alla cugina Adriana Mila.

Vannozza si alzò dallo scranno, sporgendosi per baciare Rachele e prendere congedo: «Fatemi sapere allora se potremo contare sulla presenza della cara piccola Sarah per il nostro viaggio a Ostia. Sul segreto della presenza di Lucrezia a Roma, conto ovviamente sulla vostra discrezione, siete l’unica a saperlo.»

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