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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

Estratti inediti – Memorie dal Buio, Mille

da | Mar 28, 2022

Foto dal Web

CAPITOLO 1

Haifa, Monastero del Monte Carmelo, Equinozio d’autunno 1013

L’uomo prese il rigido involucro di stoffe e lo legò con delle strisce di cuoio e delle catene, imballando il suo contenuto, per poi apporre un marchio di ceralacca sul lucchetto che teneva sigillato il pacco.

Solo allora lo offrì al giovane incappucciato.

Il ragazzo teneva il capo chino, sperando di nascondere il volto e le sue emozioni, ma il leggero mantello di lana da viaggio tradiva un respiro ansioso ed emozionato, mentre tendeva mani tremanti a ricevere il fardello dall’uomo.

Il vento del mare spirò prepotente, portando un poco di refrigerio al caldo opprimente nella Grotta del Profeta Elia, quando le mani del giovane presero contatto col misterioso involto di stoffe.

Le candele si spensero quasi tutte, lasciandone solo un paio a tremolare sui loro stoppini di corda.

Nella semioscurità del ventre della terra, il contenuto del pacco emise un debole bagliore dorato e caldo, nonostante i vari strati di stoffa, baluginando con maggiore intensità vicino alle mani del ragazzo.

Il pacco, rettangolare, largo una spanna e lungo due, sottile come due dita appaiate, era pesante e metteva a dura prova le braccia del giovane, che le teneva protese mentre il suo superiore ancora non mostrava di voler togliere le mani dal tesoro.

«L’Arcangelo Michele mi è venuto in sogno, figlio mio, comandando questo viaggio che deve iniziare oggi, da qui. Poiché oggi, mi ha detto, l’ultimo raggio di sole al tramonto lambirà il perfetto allineamento dei luoghi sacri.»

«N-non capisco.»

«Non occorre che tu capisca ora. I confratelli dei monasteri sono già stati avvertiti. Li raggiungerai, uno per uno, e prenderai in carico le loro reliquie. Sei atteso a Skellig Michael entro l’equinozio di primavera con tutti i pegni.»

«Sì, fratello Caesar, compirò la mia missione.»

«E lo farai, poiché, lo hai ben visto, la reliquia ti ha riconosciuto come degno portatore», sospirò dopo una breve pausa in cui rimase a soppesare l’allievo in ogni suo dettaglio, dal volto affilato e magro, agli occhi tondi, leggermente infossati nelle orbite più scure. «Non sai nulla del mondo che c’è là fuori, dei pericoli e della vita nelle strade e io mi do pena per te, perché il mio cuore di confratello non vorrebbe mai esporti a questi pericoli.»

«Grazie, Abate, ma se questo è il mio destino, devo accettare la volontà di dio.»

L’abate annuì, mettendogli le braccia sulle spalle, preparandosi a una confessione che non avrebbe mai dovuto fare: «Sei come un figlio per me, ti prego, stai attento.»

Il ragazzo rimase immobile con le labbra socchiuse, stupito da quella manifestazione di affetto del suo superiore.

«Voi mi avete accolto, istruito e preparato. Non vi deluderò!»

«Non potresti mai farlo», disse con un sorriso amaro. «Rimani sempre fedele al tuo cuore e agli insegnamenti che hai ricevuto qui e che ti indicheranno la giusta strada da seguire qwuando il diavolo verrà da te a tentarti.»

«Come Gesù nel deserto», aggiunse lui, piegando il capo.

«Al molo troverai il guerriero della fede Jeacques Corday pronto ad accompagnarti e a farti da scorta.»

«Sia fatta la volontà di Dio.»

Il monaco baciò in fronte il giovane: «Nelle stalle ti attende l’asino che ti accompagnerà. Zefiro è un buon animale, intelligente e razionale e l’ho scelto apposta, tra tutti gli asini del convento, per esserti compagno e guida in questo pericoloso viaggio.»

«Grazie Abate Caesar.»

«Prima di partire passa dalle cucine, Fratello Adelmo ti ha preparato delle provviste e questi ori ti aiuteranno a non patire mai fame e freddo. Mettili al sicuro», disse versandogli in mano una manciata di gemme e pezzi d’oro.

«E’… è troppo, io…» cercò di obiettare, constatando il valore dei preziosi che gli erano stati donati, ma quando l’abate gli chiuse le dita sulla piccola fortuna, il ragazzo annuì in silenzio, la rimise nel sacchetto di cuoio e se lo mise al collo.

Quando la porta del convento si chiuse alle sue spalle, il ragazzo ebbe un sussulto. Non aveva mai messo piede fuori da quelle mura sicure, intrise della devozione e della fede dei suoi confratelli.

Era solo.

Doveva iniziare un viaggio di migliaia di miglia, in luoghi di cui non conosceva lingue e usanze.

Fissò l’asino che ricambiò il suo sguardo, piegando le orecchie di lato, in attesa.

Dopo alcuni istanti, Zefiro batté lo zoccolo sulla roccia.

«Hai ragione. Un viaggio inizia col primo passo.»

Il primo passo era anche il più difficile da compiere e il ragazzo fissò ancora a lungo i piedi, prima di muovere il destro e prendere a scendere dalla collina.

Caesar lo poté seguire a lungo, mentre camminava spedito verso la città di Haifa, portando l’asino a mano e la reliquia stretta tra le braccia.

Il monaco rimase concentrato sul bagliore dorato dell’involto di stoffe e catene, una languida carezza che abbracciava il corpo e il capo del giovane, finché questi non si decise a metterlo nella bisaccia dell’asino, sparendo così nell’oscurità della stretta via tortuosa della periferia di Haifa.

Ora che il primo passo era stato fatto, il ragazzo camminava baldanzoso e fiero della sua missione, ne gustava l’inizio come il più delicato dei vini, come quei pasticcini salati e leggeri che preparavano il corpo al pranzo e alle portate nobili.

Davanti a lui si stendeva il vasto mare e la più grande avventura della sua vita, che iniziava con una piazza gremita di persone che salivano o scendevano lungo le passerelle delle imbarcazioni, accatastavano merci e animali, preparandosi ai mercati e ai commerci della mattina successiva. Era un brulicare di vita così lontano dalla tranquillità ascetica del monastero cui era abituato, che quasi ne fu stordito.

«Zefiro, guarda quanta gente, non ne ho mai vista tanta tutta insieme!» L’asino ragliò sommessamente, avanzando nel vicolo. «Gente di tanti paesi diversi. Così tante lingue, così tante religioni, monete, usanze. Una Babilonia di depravazione e pericolo!»

L’asino piegò indietro le orecchie e lo fissò, fermandosi: «Che c’è? Ti annoio? Io invece sono eccitato e impaziente. Impaurito e titubante. Sono ubriaco di emozioni! C’è tutto il mondo davanti a noi! Vedremo la Grecia, Roma, la Francia e farò ritorno proprio in Cornovaglia dove sono nato. A missione conclusa, potrò cercare risposte sulla mia origine e la mia famiglia, di cui non so praticamente nulla», l’asino lo stava guardando con gli occhi attenti. «Nemmeno il motivo per cui si sono liberati di me mandandomi in un monastero, senza più venire a cercarmi.»

L’asino appoggiò il muso al suo fianco e il giovane chierico ne trasse un conforto inaspettato: «Sei una bestia empatica, Zefiro, e molto intelligente. Andremo d’accordo, tu e io. Andiamo ora!»

Uscendo da un vicolo, il monaco fece per svoltare sulla direttrice principale che costeggiava la piazza del porto, quando l’asino si piantò sui suoi zoccoli, rifiutandosi di proseguire.

Il ragazzo tirò le briglie, imprecò e subito chiese perdono al cielo, ma di smuovere l’asino non ci fu modo.

All’ennesimo strattone, l’animale indietreggiò e portò con sé il gracile prete, che nella foga si scoprì il capo, rivelando la tonsura monacale, mentre cadeva per terra: «Mi rimangio tutti i complimenti, sei solo una stupida bestia!» Disse subito prima che una freccia si conficcasse nel muro dove s’era appena scansata la sua testa.

Il ragazzo fissò il dardo, poi la via in cui le persone presero a correre gridando in una crescente caoticità che sollevava polvere e faceva bruciare gli occhi.

Quando una figura in fuga gli passò accanto, urtandolo senza criterio, lui non poté vedere granché, ma sentì un pizzicore lungo il braccio urtato e un refolo di odore di sangue, sporcizia e sudore di un tono più delicato rispetto all’afrore maschile cui era avvezzo nel monastero.

Odore di donna.

*

Porto di Haifa, stesso momento

La chelandria veneziana attraccò dolcemente, trascinata dai portuali che accompagnarono lo scafo ad avvicinarsi al molo, fissando poi le gomene alle bitte di legno. La nave dallo scafo tondeggiante  gettò l’ancora e i marinai terminarono di ammainare la vela quadra, ritirando i remi e abbassando l’albero.

Dal guscio centrale emersero i passeggeri, che si avviarono sulla passerella.

L’uomo che li guidava rimase immobile a guardare il viavai di persone, così abbondanti anche a quella tarda ora di notte, ma il suo non era uno sguardo di ammirazione, bensì di disprezzo e critica.

Lo stesso sguardo si leggeva sul viso delicato di una ragazzina, sedicenne o poco più, dalla folta chioma rossa e ricciuta, che gli si affiancò.

«Che disgusto», commentò arricciando il naso viziato. «E che fetore. Zio caro, spero che non vorrai che io scenda in mezzo a quella marmaglia di barbari.»

Lui non rispose, continuando a scrutare la folla, come in cerca di qualcuno.

«Nonostante siamo da dieci giorni su questa nave, non mi interessa la terra ferma se questo è l’odore e la vista che mi si offre.»

Di nuovo lui tacque, ma lo sguardo si fissò su un pingue uomo di mezza età e le sue mastodontiche guardie.

La ragazzina, che dava le spalle al porto, fissando l’opulenza e la pulizia della sua nave, non si accorse dello sguardo di intesa che lo zio si scambiò con l’uomo e riprese a lamentarsi: «Se proprio devo farti da interprete, porta i commercianti qui, al mio cospetto. Se metto piede a terra come minimo prendo le pulci da questi sudicioni.»

Lo zio fece un cenno ai suoi armigeri che, in un istante, legarono i polsi della ragazza: «M-ma cosa? Come vi permettete! Zio, che succede?»

L’uomo infilò i pollici nella cinta d’arme di cuoio che, più che reggere una spada, serviva a stringere li broccati degli abiti col corpo snello: «E stai zitta una buona volta, gallina viziata.»

La ragazza sbarrò gli occhi e il terrore iniziò a strisciarle sotto pelle quando si rese conto che anche la sua serva era stata legata e bloccata all’albero maestro: «Z-zio, cosa vuol dire tutto questo? Stai certo che non appena lo dirò a mio padre lui…»

«E’ lui che mi ha dato questo ordine, mia cara nipote. Il tuo comportamento licenzioso rischiava di gettare discredito sulla famiglia e compromettere la salita al soglio del Doge per tuo padre.»

«Licenzioso? Ma io non ho mai fatto nulla di riprovevole!»

«Stai zitta una buona volta. Visto che hai rifiutato il matrimonio che avevamo combinato, ne abbiamo organizzato un altro. Questo facoltoso commerciante sosterrà tuo padre e la sua carriera. In cambio, ti avrà in sposa.»

Scese dalla nave, trascinandosi dietro in malo modo una ragazzina, rissosa e combattiva che strattonava e si opponeva, cercando di liberarsi dal cordame, stretto e doloroso: «Non puoi zio, non puoi lasciarmi qui! Mio padre non può aver preso questa decisione orribile! Riportami a casa, gli parlerò io!» Lo pregò, trattenendo le lacrime, incespicando sulla passerella quando, dietro di loro, l’armigero la spinse in malo modo.

La ragazza gridava e lo insultava, e la sua voce e la chioma rossa avevano iniziato ad attrarre gli sguardi dei pochi presenti sui moli.

L’uomo le rifilò un ceffone che la fece bloccare all’istante, tanto coi movimenti che con le parole.

«Uno schiaffo ben dato non sarà mai dimenticato. Mio fratello avrebbe dovuto dartene molti altri e anche prima e ti garantisco che non saresti cresciuta così viziata e ribelle», e le avvolse il capo nello scialle, coprendole i capelli e gran parte del volto, poi riprese a tirarsela dietro, guardandosi intorno con attenzione, fino a incrociare il mercante.

«Eccolo», disse infine e mutò repentinamente direzione, senza dar modo alla ragazza di poter osservare il medesimo bersaglio.

«Zio, per favore, ripensateci!» Osò piagnucolare lei. «Non lasciarmi qui.»

«Nel momento in cui ti metterò nelle mani del mercante Baldassarre, potrò lavare via dalle mie la responsabilità. Ti sei messa tu in questo guaio e ne pagherai il fio.»

La ragazza si rifiutava di accettare quel destino e strattonò la presa fino a sentire le dita della mano intorpidirsi e pulsare di dolore, incespicò e cadde, venendo tirata in piedi con tale veemenza da soffrire un dolore acuto alla spalla.

Si guardò attorno alla ricerca di aiuto, ma si bloccò con gli occhi sbarrati di terrore quando vide il suo promesso sposo.

Lo zio si era fermato davanti a un uomo sui quarant’anni dallo sguardo crudele e privo di pietà.

«Baldassarre, ecco la fanciulla. La sua dote è nel bagaglio della serva. Come stabilito dal contratto, ella ora vi appartiene come moglie. Il suo nome nobile darà lustro al vostro. E i figli che vi darà saranno marchesi.»

La ragazza tremò e rimase impietrita quando il suo promesso sposo avanzò per esaminarla come si faceva con gli schiavi o i cavalli al mercato.

Capelli.

Denti.

Braccia.

Seno.

Fianchi.

E mentre uno degli sgherri del mercante controllava il denaro, lui non staccava gli occhi di dosso alla fanciulla: «Concludiamo in fretta, sto aspettando anche altri mercanti di schiavi. Accetto la ragazza come moglie e la sua dote. Sosterrò la famiglia Tron nella votazione per il Doge, ma considerando che accetto di tenere questa puledra ribelle lontano dai vostri guai, in cambio voglio anche un carico di vetro, o lei potrebbe riapparire a Venezia con una bella storia da raccontare.»

Lo zio strinse il polso della ragazza con tale forza da farla gemere di dolore: «E l’avrete con la nave che giungerà alla prossima luna nuova», concesse con un ringhio e con un inchino obbligato ed eseguito con una rigidità indispettita.

Tese la mano e gli offrì il braccio della ragazza.

In quel momento un cavallo ferito si impennò e scalciò da qualche parte nella piazza, seminando il panico tra i portuali e i malfattori che, a quell’ora della notte, affollavano il molo e le bettole che sorgevano, pericolanti e sudicie, come i denti di un morto abbandonato sul campo di battaglia.

Il sibilo di alcune frecce fece abbassare il capo ai più reattivi tra gli uomini, lasciando i meno esperti a guardarsi intorno sperduti.

Una freccia si piantò nel muro vicino a un asino, un’altra centrò in un occhio uno sgherro di Baldassarre che cadde addosso alla ragazza e, nella concitazione del momento, lei si trovò libera.

Ci mise poco a decidere e, alzatasi in piedi, cercò di fuggire.

Baldassarre la prese per una caviglia: «Ferma tu!»

La fuga non poteva finire così, non dopo che aveva assaporato la libertà e un’opportunità di sottrarsi a quel destino.

Piantò il piede a terra e menò calci con l’altro, prima alla spalla, poi sulla mano e, quando finalmente trovò il volto del suo aguzzino, calciò con tutta la sua forza una, due volte finché, al terzo calcio, qualcosa si ruppe e lui mollò la presa gridando di dolore mentre si teneva le mani sulla faccia, ridotta a una maschera di sangue.

La ragazzina indossava ancora le pianelle veneziane con le zeppe di legno che tenevano sollevati i piedi dalle calli umide e invase dalle acque della laguna e ringraziò quelle suole dure cui ora doveva la sua libertà.

Le frecce sibilarono attorno a lei, mentre si infilava in un vicolo, nascondendosi tra la folla che correva tutta nella sua medesima direzione, gomito a gomito, spintonandosi e gridando per fuggire dal pericolo.

*

Bettola del Cavallino, stesso momento

Il giovane agitò il bicchiere di coccio con dentro gli astragali cubici di montone e lanciò sul tavolo i suoi dadi.

Aveva circa vent’anni, coi lineamenti imbastarditi tra ebrei e occidentali che alternavano le scure sopracciglia a capelli castano chiaro e occhi di un color sabbia ambrato, dai riflessi verdi.

I ricci dei lunghi capelli lo facevano assomigliare alle iconografie del Cristo, ma il sorriso impertinente era di chi si fosse confrontato più spesso con l’estorsione piuttosto che con i saggi del tempio.

Le ossa di ovino, con incisi sulle facce i numeri dall’uno al sei, rotolarono e si fermarono vicino a quelli del suo avversario: «Trentacinque! Ho vinto di nuovo!» Dichiarò ridendo, mentre l’ovazione di  stupore degli spettatori accompagnava bestemmie, rutti e incitamento a giocare di nuovo.

Ma l’avversario sollevò le mani e il boccale: «Ah no, basta così, il ragazzo è fortunato stanotte e io non lo sfiderò ancora. Vieni, pagherò il mio debito, poi dovrò tornare al mio lavoro.»

Il giovane aveva rischiato sfidando quel guerriero dagli abiti nobili e dalla scarsella sempre piena, ma i suoi astragali erano limati al punto giusto e il guerriero era inesperto dell’azzardo e sempre brillo a quell’ora della notte.

Vincere non era stato difficile.

Il colpaccio era andato a segno dopo due notti di osservazione della sua preda e delle sue abitudini.

Gli aveva offerto del vino, aveva civettato con lui, intendendone le ambigue inclinazioni della carne e poi avevano giocato.

Quello che gli avventori non sapevano, era che parte dell’accordo di vincita prevedesse un premio in natura, da riscuotersi con la mano o con la bocca ed ecco come mai i due si allontanarono verso le stalle, invece che terminare il saldo alla bettola.

Nelle stalle c’era lo scudiero del cavaliere e il ragazzo sapeva di dover agire prima che il suo bersaglio entrasse nel portone e trovasse un alleato.

Estrasse un pugnale dallo stivale e glielo puntò al petto: «Datemi i soldi, Cavaliere. Tutti. E nessuno si farà male.»

«Artorius, ma dai! Davvero vuoi uccidermi per pochi pezzi d’oro? Credevo avessi voglia anche tu di dividere con me qualche attimo particolare.»

«Sono bravo a recitare, cavaliere, ora datemi tutti i soldi che avete e ci saluteremo qui.»

«D’accordo, ma lascia che ti dica che sono molto deluso e contrariato. Spero almeno che non li spenderai tutti in baldracche», e tirò fuori la scarsella appesantita dall’oro.

In quel momento, le grida di alcuni uomini nello spiazzo antistante i moli gettarono nel panico la folla, un cavallo ferito corse nel vicolo e travolse il cavaliere, che cadde dritto sul pugnale di Artorius.

Il ragazzo sentì la lama stridere contro le costole e la carne lacerarsi fino a inondargli la mano di sangue caldo.

«Oh no… no, io non volevo! Cavaliere!» Piagnucolò il ragazzo.

Il nobile gorgogliò sputando sangue e lo fissò negli occhi mentre moriva, con lo sguardo incredulo dipinto sul volto.

Artorius lo abbandonò a terra, indietreggiando nella folla che fuggiva dal piazzale, mentre lo scudiero usciva dalla stalla, daga in pugno, per fronteggiare i pericoli.

Il ragazzo si guardò le mani lorde di sangue, i vestiti sporchi e la lama intrisa di coaguli e frustoli di adipe e indietreggiò con le spalle al muro per poi infilarsi di corsa nella stalla, proprio mentre lo stalliere, chino sul corpo del suo padrone, veniva travolto e calpestato dalla folla in fuga.

Lo sentì gridare per alcuni istanti in cui lui, rannicchiato in un angolo, si copriva le orecchie con le mani.

Poi tacque e il frastuono delle persone in fuga si fece più lontano, indistinto.

Artorius trovò la forza di alzarsi e guardare fuori dalla stalla.

Lo stalliere era morto, travolto dalla folla e con il volto tumefatto e irriconoscibile: «Oddio, cos’ho fatto. Mio dio, mio dio!» Disse girando per la stalla con l’adrenalina che lo faceva tremare di orrore e paura.

«Che diavolo è successo in quella piazza?» Disse, incontrando lo sguardo del cavallo del nobile, un possente stallone da guerra dal manto baio oscuro lo stava fiutando con le froge allargate e  il cipiglio indagatore. Sulla capezza di cuoio e acciaio aveva inciso il nome Guerriero; lì accanto, la sella e le bisacce erano poste sul trespolo che divideva la stalla del cavallo di razza da quella di un castrato color sabbia su cui viaggiava lo stalliere e che invece si chiamava Biscotto.

Aveva poco tempo per decidere cosa fare.

*

Piazza del molo di Haifa, stesso momento

La carovana si fermò nel centro dello spiazzo, appaiando le gabbie dei prigionieri vicino ai cavalli stanchi e sudati. I mercanti di schiavi si sedettero a sbocconcellare dei fichi mentre il loro capo si rassettava per apparire un poco meno masticato e sputato fuori dall’inferno del deserto.

«Vado a cercare Baldassarre, cercheremo di vendergli la vergine subito, poi potremo riposare in attesa del mercato di domani per gli altri schiavi di minor valore», disse al suo secondo, scoccando un’occhiata alla gabbia di legno in cui una donna bionda era accucciata col capo tra le ginocchia e i capelli scompigliati con solo un vago ricordo di trecce e ordine. «Voi rimettetela in sesto per farla apparire al meglio. Voglio spillare un bel po’ d’oro a quel pervertito.»

Uno dei mercanti gettò la pelle succhiata del fico nel falò che troneggiava al centro della piazza, a dare luce all’anfiteatro di vecchie catapecchie e armeggiò con la chiave per aprire il lucchetto della gabbia della donna bionda, che afferrò per i capelli: «Vieni fuori», ordinò con uno strattone.

Sulle prime la donna rotolò e si fece trascinare, poi puntellò i piedi e si mise a camminare piegata in avanti, per assecondare la presa dolorosa delle sue ciocche.

Seguì l’uomo vicino al carro che portava le botti di acqua, docile e remissiva, mentre gli occhi azzurri, circondati da neri aloni di ematomi, fissavano tutto attorno.

Era la migliore occasione da quasi un mese.

Era in piedi finalmente, e non in una piccola gabbia di legno in cui doveva fare tutto, mangiare, dormire rannicchiata, mingere e defecare.

Si sentiva sporca e fetida.

Se solo i suoi muscoli l’avessero assistita e non abbandonata per la forzata inattività.

Strinse i pugni, provò a contrarre le cosce e a raddrizzare le spalle mentre l’uomo riempiva un secchio di acqua stantia.

Valeva la pena provarci.

La donna colpì il pomo d’Adamo del carceriere con un gancio destro caricato per essere pesante e doloroso e l’uomo si piegò boccheggiando, incapace di articolare suoni.

Lei gli si accucciò accanto, stringendogli il collo nella morsa a tenaglia di braccio e avambraccio finché non lo sentì afflosciarsi e svenire.

Ne perquisì il corpo fino a trovare un pugnale con cui gli recise la gola a sangue freddo, con la precisione di un sicario e si nascose tra i carri.

Quello su cui erano stipati i suoi oggetti personali era al di là di una zona illuminata in cui non avrebbe potuto nascondersi.

«Mohamed?» Chiamò uno dei mercanti, alzandosi dal falò per dirigersi al carro dell’acqua.

La donna ne approfittò per correre al secondo carro, nascondendosi dietro le grandi ruote, per poi sfruttare il momento di panico del ritrovamento del cadavere, per salirvi, scivolando agilmente sotto il telo. Lì era stato raccolto tutto quello che era stato rubato agli uomini e alle donne che erano finiti nelle gabbie dei mercanti di schiavi e lei non toccò altro che le proprie cose.

L’armatura di cuoio e metallo, la spada e lo scudo tondo, l’accetta da lancio e l’arco con la faretra.

«Trovatela! Trovate quella maledetta puttana!» Gridò il secondo in comando.

La ragazza balzò fuori dal nascondiglio, in piedi sul pianale del carro, caricando la prima freccia che sibilò nell’aria, conficcandosi diretta nella gola del vice comandante, poi una seconda che centrò uno dei mercanti. La terza stava per trapassare il petto di un altro manigoldo, ma all’ultimo si scostò e il dardo penetrò nei muscoli della spalla di un cavallo, facendolo impazzire di dolore. Impennò sui posteriori e calpestò persone e oggetti, scalciando e tirando le corde, fino a spezzarle.

Trovatosi libero, prese a correre in mezzo alla folla, calpestando e saltando corpi, dando inizio a una fuga scomposta e terrorizzata degli umani.

La quarta freccia era pronta a venire scoccata, quando il capo dei mercanti colpì la nuca della ragazza con un sasso che la ferì e le fece sbagliare mira, mandando la punta di ferro a penetrare in un muro di argilla e paglia di una casa d’angolo.

L’arciera non controllò neanche lo stato della propria testa, sentiva solo il dolore pulsante e il caldo viscoso del sangue colarle nella schiena, ma non importava, doveva fuggire.

Saltò giù dal carro e si mise a correre con le persone di quella città sconosciuta, mescendosi a grida straniere e abiti esotici, si scontrò con un’ombra a terra, di cui si dimenticò immediatamente e riprese a correre, fino a scomparire nella notte.

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