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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

Racconto completo – Oscurità

da | Mar 28, 2022

Il seguente racconto ha vinto l’edizione del 2013 del premio di Radio Serpe.

Foto dal Web

Maledizione a quando avevo detto “sì” al mio amico Maresciallo.

Fosse almeno stata una proposta di matrimonio, invece no, come al solito mi chiedeva aiuto, perché è chiaro, certe cose le faccio così bene che è doveroso rifilarmele. Una prassi.

Iniziava a darmi troppo per scontata, come presenza, come aiuto, come deus ex machina che giungeva a risolvergli un problema e ad una ragazza non piace affatto esser data per scontata.

Le ragazze vogliono essere corteggiate, capite, amate e io non faccio certo eccezione.

Sta di fatto che di nuovo gli avevo detto “sì”, cedendo alla richiesta di una perizia sul luogo dell’ultimo delitto; probabilmente nella polizia scientifica avrei fatto strada, ma non ci tenevo molto a far divenire quelle indagini fatte per hobby o per amicizia, un lavoro a tempo pieno.

Alla fine mi sarei annoiata, mi conosco bene!

Ed eccomi lì, con la giacca lunga di pelle dalle falde ondeggianti, aperta sul vestito lungo da sera, il ticchettìo delle scarpe col tacco in quel susseguirsi di passi rapidi e ravvicinati, tipici di chi sta lottando con uno spacco troppo corto rispetto alla falcata: “Se mi rompo il vestito gli rompo un braccio… mi è costato un occhio!”

Beh, non sono certo una signorina di buona famiglia nel passo marziale ed energico che mi caratterizza, un passo che mal si sposa con gli abiti di gala che quella sera indossavo.

Dovevo fare mente locale e ricordare di spegnere il telefonino quando mi prendevo una serata per rilassarmi con gli amici ad una festa chic: dovevo spegnerlo e basta, così forse avrei potuto starmene tranquilla in quel covo di arrivisti e future veline a far finta di bere champagne.

E invece ero per strada, sola, con una macchina fotografica in mano e una voglia matta di essere dovunque, anche su una poltrona da dentista a farmi cavare i canini, piuttosto che lì.

Sangue…

Un odore caratteristico, qualcosa che so riconoscere in quel pungente aroma metallico; gli occhi abbassati sul marciapiede avevano subito inquadrato i resti dei segni di gesso dei RIS che identificavano la posizione del cadavere, le chiazze di sangue, le tracce delle suole di scarpa che si allontanavano dalla scena del crimine. Scarpe da ginnastica numero 44 grossomodo.

C’era stato il corpo di una donna lì, fino a poche ore prima, una donna qualsiasi, giovane, carina, di ritorno dall’ufficio; una donna violentata, mutilata e sventrata e non necessariamente in quest’ordine, il medico legale non si era ancora pronunciato in merito con il Maresciallo.

Ma perché diamine gli uomini devono imporsi sulle donne seviziandole e uccidendole? Una donna, anche se invidiosa o con un’infanzia infelice, non fa mai tali scempi. O forse quasi mai… Niente da fare, le persone non le capirò mai.

Accucciata sul luogo del delitto apparivo semplicemente come una dei tanti morbosi curiosi che passavano, rallentavano per fissarsi in mente i particolari da raccontare per settimane agli amici e passavano oltre, lieti e sollevati di poter chiudere la tragedia in un capitolo lontano dei loro ricordi.

La morta non era nessuno di loro conoscenza, quindi potevano anche non soffrirne, chiudere i sentimenti, usare quell’esperienza per succhiare via un macabro gusto del voyeurismo orrido.

Per me era uno dei tanti morti che nella mia vita avevo visto, un morto che chiedeva giustizia e al quale avrei prestato volentieri le mie doti particolari. Non farlo mi sarebbe sembrato delittuoso, visto che avevo le capacità per dare una svolta alle indagini.

Quando mi hanno detto per la prima volta che un omicida torna sempre sul luogo del delitto, ho riso, perché non potevo credere che qualcuno che ha appena ucciso, lasciando sicuramente qualche traccia di sé sul luogo della tragedia, fosse tanto idiota da tornare e rischiare di venire visto e collegato in qualche modo ai fatti.

Foto dal Web

Respiro…

Sottile, con quel lieve rantolo tipico di chi ha fumato un pacchetto giornaliero di troppo per vent’anni. Ho un buon udito e, anche se quell’ansante sconosciuto faceva di tutto per non farsi sentire, misurando l’escursione del torace e l’espirazione, potevo inquadrarlo nello spazio come se lo stessi fissando direttamente.

Sei metri, dietro di me, appena oltre l’angolo del Bar, sottovento rispetto alla mia posizione.

L’olfatto non poteva aiutarmi, pazienza, non avevo certo intenzione di infilargli le narici sotto ascella per capire chi fosse, meglio provare a rubargli la patente piuttosto. O, meglio ancora, levare le àncore.

Di solito ho qualche vantaggio sui malintenzionati, ho forza, agilità e un bagaglio di esperienza di lotta corpo a corpo che mi permettono di sentirmi tutto sommato tranquilla, eppure l’istinto mi suggeriva di non tirare la corda, perché qualcuno più forte, più veloce o semplicemente più armato di me, lo potevo tranquillamente trovare.

Insomma, in una colluttazione non ero proprio certa di uscirne indenne e vittoriosa.

I miei passi inizialmente erano stati lenti, tranquilli, mentre cercavo febbrilmente nelle vetrine il riflesso del mio pedinatore; già, perché mi stava seguendo, calcando leggermente le suole delle scarpe sportive, rendendosi difficile da scorgere.

Nei vetri lindi dei negozi, dietro le serrande a rombi di acciaio, intravedevo solo una anonima figura infagottata in un impermeabile lungo color cammello, stereotipo del molestatore di ragazzine sui treni, che apre le falde per mostrare una nudità spesso risibile.

Sapevo che era comunque un malintenzionato; una persona normale non segue la gente per strada, ma di certo non mi sarei fermata a chiedergli se fosse l’assassino o solo qualcuno che volesse rendermi edotta sul rapporto inversamente proporzionale tra notte gelida e lunghezza del membro virile.

Non avevo tanti soldi con me e si sa che, a volte, gli scippatori che non trovano abbastanza bottino, infieriscono sulla vittima, con violenza sanguinaria o sessuale, o entrambe in sequenza, tutte cose che volevo evitarmi.

Mantenevo il passo tranquillo, nonostante tutte le fibre del mio corpo mi intimassero di correre via, cercare un posto affollato, fuggire sperando di non sentire l’artigliata delle sue mani dietro la nuca; avevo ben chiaro che correre è il modo migliore per eccitare un predatore, leone o assassino che fosse, quindi mimando una sicurezza che non avevo, facevo rintoccare i tacchi sul marciapiede con un ritmo delicato e misurato.

Ero io la sua preda, e all’ennesimo angolo che svoltavo, sentendomelo sempre dietro a una quindicina di passi, ho abbandonato statistiche e ipotesi a favore della certezza: sì, ce l’aveva con me.

Dannazione!

Silenzio…

Niente più passi, neanche fermandomi in ascolto in uno di quei viottoli vicini al centro città, eppure lontani anni luce dallo splendore luminoso dei neon eternamente accesi.

Amavo la mia città, anche nelle sue affascinanti contraddizioni tra giorno e notte, agiatezza e miseria, attenzione e abbandono, il tutto stemperato in poche decine di metri tra lustrini di sfilate di moda e banche e barboni congelati agli angoli delle strade.

Qualche decina di metri tra inferno e paradiso: la stessa distanza che mi separava dalle pensiline dei taxi; era ora di mandare il Maresciallo a defecare sui cactus, se lo sarebbe risolto da solo il caso, non avevo intenzione di starmene lì a fare da bersaglio per uno psicopatico.

Avevo accelerato il passo, ormai sicura che mi avesse lasciato in pace, correndo quasi, stretta nella giacca lunga di pelle, non perché sentissi freddo, ma per non impicciarmi oltremodo nei movimenti e, quando la figura, poco più alta di me, con l’impermeabile color cammello, mi si era parata davanti, mi ero bloccata, con la bocca socchiusa, stupita di non essermi accorta che stava aggirando il palazzo di vetro e cemento per tagliarmi la strada.

Dovevo pensare velocemente e sottrarmi a quella situazione: svolta a destra, poi sotto la galleria dello shopping, col passo veloce, quasi una fuga, mentre cedevo alla tentazione di guardarmi le spalle, per capire se mi stesse ancora alle calcagna.

C’era e pareva quasi spingermi verso una precisa direzione, quasi fosse il gatto che giocava col topolino, mentre aggirava le auto in sosta, mi sfiorava, mi rideva contro tutto il suo sadismo.

Svoltato l’angolo dentro la galleria coperta dello shopping, di nuovo mi ero voltata per cercarne la figura nell’oscurità, ma un ostacolo imprevisto mi aveva bloccato la punta della scarpa da sera, costringendomi a un lungo passo per cercare di evitare la caduta; lo strappo del vestito aveva anticipato di poco una mia bestemmia, colorita e tutt’altro che femminile e il tonfo del mio corpo che faceva eco al disfarsi in frantumi della macchina fotografica.

Lentamente mi ero voltata a guardare cosa mi avesse fatto cadere. Era una donna, riversa a terra, con gli occhi vitrei spalancati su domande prive di risposta e il sangue ormai coagulato, fresco di poche decine di minuti, come un budino poco amalgamato di siero e cellule, sparso sul lucido granito della galleria e che arrivava a lambirmi l’orlo della giacca, creando un filo viscido, mentre scostavo disgustata il lembo ormai zuppo.

Sangue morto. Orrendo.

Ce n’era troppo a terra perché potessi considerarlo un omicidio per rapina finito male: quella era un’esecuzione, la mattanza di uno psicopatico che aveva eletto quell’angolo di bel mondo come sua macelleria personale, esposta alla visione delle telecamere, come estrema sfida alle autorità.

Analisi…

Il profilo dell’assassino in fondo non si discostava dal classico cliché: qualsiasi fosse stato il movente, il disturbo d’infanzia che lo aveva portato a macellare le donne giovani e che sarebbe stato appiglio disperato dell’avvocato difensore per l’infermità mentale, alla fine avevo davanti un malato, di mezz’età, maschio bianco, che voleva essere fermato, divenire famoso associando il proprio nome all’efferatezza.

Alla donna di poche ore prima aveva mutilato il volto e i genitali con una precisione quasi chirurgica, seguendo uno schema che mi aveva suggerito da subito un emulo di Jack lo Squartatore, a questa aveva tagliato il collo con una tale violenza che quasi l’aveva decapitata, aprendole poi l’addome come in una vivisezione, in modo che la matassa di intestini rotolasse fuori dallo squarcio; eppure, occhieggiando il sangue rappreso sulla gonna, che ancora brillava sotto l’impietoso occhio delle luci della galleria, potevo anche ipotizzare che le avesse riservato analogo trattamento alle pudenda.

E senza troppo errare nell’ipotesi, supponevo che sarebbe toccato a me di lì a breve; avevo alzato lo sguardo sulla figura immobile a tre metri di distanza, mentre stavo ancora seduta a terra, strisciando scoordinata sulle natiche per allontanarmi da quella scena di morte, da quel cadavere mutilato e dal suo carnefice che, come il peggior boia dell’Inquisizione, mi mostrava stretto nella mano destra lo strumento del mio supplizio.

Il coltello dalla lunga lama brillava mentre me lo sciabolava davanti agli occhi: era uno di quei coltelli pubblicizzati in televisione, dalla lama così affilata da tagliare anche il compensato e le lattine di alluminio e di sicuro l’assassino aveva pensato che su un naso umano, o su un ventre, avrebbe fatto un lavoro preciso e l’aveva comprato apposta. Proprio con quel fine.

Aveva scavalcato il cadavere, scivolando appena sul sangue sparso a terra con un cigolare fastidioso della suola di gomma, che tuttavia non era bastato a farlo cadere, ma anzi acuiva la sua frustrazione mentre mi caricava come un bufalo impazzito, mirando con il coltello al mio stomaco.

Di lì a poco mi avrebbe trafitto: dovevo analizzare velocemente la situazione… trovare una via di disimpegno… alzarmi… schivarlo… correre a chiamare aiuto.

L’avrei anche fatto, con la consueta grazia felina che mi contraddistingue, non fosse stato per tacchi a spillo lordi di sangue scivoloso che strisciavano sul granito senza trovare appiglio e così, quando l’assassino si era abbassato per calare il colpo, l’unica cosa che avevo potuto fare era stata rotolare sulla schiena, quasi volessi fare una capriola, puntellando quei tacchi odiosi al suo ventre, flaccido nell’assorbire l’impatto, per catapultarlo oltre me e guadagnare così un vantaggio.

Lotta…

Ma le cose non vanno mai come nei film dove i protagonisti fanno tutto al primo colpo e senza ferirsi: prima di volare oltre il mio corpo aveva calato un colpo di pugnale contro la mia gamba sinistra, che ora buttava sangue scuro come una fontana dal quadricipite reciso quasi completamente.

Dolore! Oh, se lo sentivo! Era esploso nella mia coscienza come miriadi di stelline nere davanti agli occhi, annullando per qualche istante la mia capacità di giudizio, salvo poi mettermi davanti alla cruda realtà: il bastardo mi stava impedendo di fuggire.

Quanto avrei voluto vederlo in volto, oltre quel passamontagna scuro, per cogliere le espressioni della sua follia.

Lentamente si era rialzato, dandomi il tempo di rialzarmi a mia volta, riversa contro la serranda di un negozio di borse e scarpe firmate, con la mano sinistra stretta su quella ferita debilitante.

Avevo avvertito distintamente il suo ghignare malefico, mentre con calma tornava indietro a finire l’opera, zoppicando solo leggermente da una gamba, quella che gli avevo visto sbattere nell’atterraggio. Di sicuro quella bazzecola non era paragonabile alla mia incisione profonda, che mi lasciava di fatto senza vita tutta la gamba sinistra.

Sono spacciata. Questo pensavo in quegli istanti concitati mentre cercavo di mantenere focalizzata l’attenzione su di lui; eppure avrei venduta cara la pelle, perché se c’era una cosa che la vita mi aveva insegnato a fare, era lottare fino all’ultimo.

Il pugnale si era levato di nuovo, saettando nell’aria verso il mio ventre, intercettato dalla mia mano destra, che era scattata veloce a deviarne la traiettoria in una imperfetta esecuzione di arti marziali; non mi aveva trafitto il ventre, ma il fianco sinistro, penetrando nelle carni di cui sentivo chiaramente il dolore come un lacerarsi progressivo di fibre.

Il freddo acciaio si portava via il freddo sangue sulla lama, mentre l’assassino ritraeva lo strumento di morte, pronto a calarlo di nuovo. Già sentivo la vista annebbiarsi, mentre il suo sogghignare quasi porcino si faceva così vicino da farmi cogliere l’odore di tabacco e rhum dell’alito. La mia mano andava indebolendosi nella stretta attorno alla gamba, mentre la sua gemella ricadeva priva di risorse al fianco.

Il pensiero ormai si faceva strada dentro di me come una certezza terribile.

Morirò. Finirà davvero tutto così?

Difesa…

Dovevo difendermi fino all’ultimo, dar fondo a ogni mia risorsa e al diavolo il Maresciallo che mi aveva chiesto, nel caso l’avessi trovato, di portarglielo vivo.

Con un ringhio bestiale mi ero fatta avanti, in controtempo mentre lui sollevava il braccio per caricare un nuovo fendente; riuscivo ad essere lo stesso troppo rapida per le sue percezioni, mentre usavo il mio unico asso nella manica, con le ultime risorse prima di cedere all’oblio.

Volevo stupirlo e ci ero riuscita, perché mi dava per morta, senza alcuna risorsa, assimilandomi alle sue altre vittime, arrese alla superiorità del maschio armato. E questo mi aveva dato il vantaggio decisivo.

Le mie mani come artigli di rapace si erano protese a strappargli il passamontagna e la giacca, aprendo una via verso il collo e quella pelle mal rasata e sudata che spandeva odore di adrenalina ed eccitazione: lì avevo affondato le mie zanne, disumani canini, lacerando pelle, muscoli, connettivi fino a far esplodere la giugulare in un gustoso fiotto di sangue caldo e speziato che mi aveva saturato i sensi.

Era deliquio puro per me, estasi liquida mentre mi scendeva in gola in sapide sorsate, accompagnato dal grido di frustrazione e sorpresa dell’assassino: ad occhi sbarrati percepiva la sua vita fluire via, dentro di me, fissando il mio pasto attraverso i vetri ormai lerci di sangue del negozio.

Era lì in piedi, con la mano allentata sul manico del coltello che, in un tintinnare di acciaio era caduto a terra.

Lì in piedi, irrigidito dallo stupore e da quella piega imprevista che la sua caccia aveva preso: da predatore, a preda.

Chiuso nel mio abbraccio era andato afflosciandosi lentamente come un sacco vuoto, sorretto dalle mie mani, di nuovo forti in quella presa ineluttabile.

Lo trattenevo in piedi, a gemere i suoi ultimi sospiri in quel mortale orgasmo che gli avevo concesso, stuzzicando ogni sua fibra nervosa affinché desse il massimo dell’energia a me, Sommo Predatore.

Vampiro.

Telefonata…

Avevo lasciato cadere l’assassino ai miei piedi, pulendomi alla meglio le mani e la faccia con il passamontagna prima di prendere il mio telefonino e chiamare il Maresciallo: gli avevo promesso di tenere le zanne a posto, odio deludere un amico. D’altra parte non sono una di quelle vecchie cariatidi che volano, diventano pipistrelli e ti ammazzano a distanza: sono una novellina che aveva rischiato di finirci secca.

“Maledizione sto sporcando tutti i tasti…”

Uno sguardo al cadavere e a quel medesimo occhio vitreo che tante volte certamente lui aveva contemplato nelle donne che aveva ucciso, perfetta legge del contrappasso.

“Pronto? Sì… Ehm… ciao tesoro so che ora ti arrabbierai, ma…”

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