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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

I fuochi fatui

da | Dic 30, 2023

Foto dal Web

Sebbene la scienza si sia largamente occupata dei Fuochi Fatui (in latino Ignis fatuus, ovvero fuoco effimero), qualche dubbio sulla loro origine ancora rimane. Queste fiammelle bianche o bluastre che appaiono nelle calde notti estive nei cimiteri, stagni e brughiere, hanno da sempre affascinato gli osservatori che hanno creato numerose leggende attorno a questi fenomeni naturali. Vediamone alcune e, in seguito, anche la spiegazione scientifica del fenomeno.

Le leggende sui fuochi fatui sono presenti in ogni angolo del mondo e per lo più sono correlate all’anima, proprio a causa dei luoghi in cui appaiono, ovvero i luoghi di sepoltura, e all’aspetto di queste manifestazioni, come luci tremule, nebbioline bianche e luminose nella notte.

Gli antichi egizi suddividevano l’anima in diverse componenti, come ci ha spiegato Samael in “Memorie dal Buio – Meretrix” e una di queste, l’Akhu, rappresentava quella “Scintilla di luce divina”, che sarebbe stata tanto più intensa quanto più una persona fosse stata virtuosa nella sua vita terrena, quanto più fosse riuscita ad avvicinarsi agli dei attraverso l’applicazione della legge di Maat; è dunque questa parte dell’anima che avrebbe potuto illuminarsi, dando origine ai fuochi fatui.

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Nelle credenze popolari occidentali, i fuochi fatui venivano pure interpretati come la manifestazione degli spiriti dei morti, ma in particolare si trattava di anime dannate o del Purgatorio, oppure di bambini non battezzati, quindi anime inquiete, che non avevano trovato la pace o il paradiso.

Nel Folklore anglosassone si narra infatti la leggenda “Will-o’-the-wisp“ (in Irlanda) e il suo omonimo Jack o’ Lantern (inghilterra), nella quale un fabbro malvagio di nome Will o Jack, per due volte gabba il diavolo venuto a prendersi la sua anima di peccatore. Giunto alla fine dei suoi giorni, viene respinto dall’inferno, perché il diavolo non gli ha perdonato le due marachelle. Giunto in paradiso però, incontra San Pietro all’ingresso dei cancelli dorati. Il santo lo rimanda sulla terra per redimersi e meritarsi l’ingresso in paradiso, ma Will si dimostra incapace nell’assolvere il compito e viene condannato a vagare sulla Terra per l’eternità. Lamentatosi per la sensazione di freddo che percepiva, per aiutarlo a scaldarsi, il diavolo stesso gli lancia un tizzone ardente che lui mette in una zucca (o in una rapa) vuota intagliata. Fedele alla sua malvagità, Will si serve del carbone luminoso per attirare in trappola gli ignari viaggiatori che, notando e seguendo la luce, vengono condotti in fitte foreste e terribili paludi dalle quali è impossibile uscire.

Secondo la mitologia giapponese le anime delle persone morte da poco assumono la forma di una Hitodama e appaiono come piccole sfere luminose di colore blu pallido o verdastro con una piccola coda, generalmente nei cimiteri e soprattutto in estate. Sarebbe talvolta possibile osservarle accanto a persone gravemente malate come manifestazione dell’anima che lascia gradualmente il corpo. Se le hitodama generalmente si dissolvono o si nascondono dopo essere state avvistate, parrebbero invece attratte da persone di particolare forza spirituale.

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La prima teoria storica sull’origine del fenomeno fu presentata da Alessandro Volta subito dopo aver scoperto il metano nell’estate del 1776. Volta tirava in ballo i fulmini come catalizzatori per l’accensione delle cosiddette “luci tremolanti“. La teoria era in parte corretta, poiché presa dalle scoperte di Benjamin Franklin che nel 1749 diede una spiegazione scientifica ai “fuochi di Sant’Elmo”, ovvero a quelle scariche elettriche che apparivano durante i temporali soprattutto sull’albero maestro delle navi.

Tali fenomeni, che prendevano il nome da Sant’ Elmo, protettore dei naviganti, erano correlati alla ionizzazione dell’atmosfera in quei particolari momenti e trovavano “scarico” sui pennoni a causa del principio fisico di dispersione delle scariche elettriche su superfici appuntite (parafulmini o, appunto, alti alberi maestri nelle navi). Erano comunque ben visti dai naviganti, di buon auspicio.

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Per i fuochi fatui i fulmini non erano necessari. Si trattava della combustione spontanea della fosfina, una molecola instabile, infiammabile e tossica, descritta per la prima volta nel 1789 da Lavoiser come idrogeno fosforizzato; la sua presenza nelle emanazioni gassose è dovuta alla putrefazione della materia organica fosfatica (come corpi di animali) e ne risulta un gas così instabile, che al contatto con l’aria può esplodere in fiamme spontanee in modo imprevedibile.

Ecco spiegato come mai il fenomeno si formasse in stagni e brughiere, dove era abbondante la materia organica morta in decomposizione e nei cimiteri, dove l’usanza di seppellire i morti nella terra o in bare non sigillate e zincate (come si fa oggi, quando infatti i fuochi fatui non sono più visibili), permetteva la fuoriuscita di gas nella putrefazione.

Il coinvolgimento di fosfina e metano, non solo forma una luce blu–verdastra intensamente luminosa, ma crea anche una spessa nebbia biancastra che amplifica le dimensioni della fiamma e genera le leggende sulle apparizioni di spiriti o anime dei morti. Conoscendo la causa di questi fuochi fatui possiamo fare luce anche su un altro mistero notato dai giapponesi: quasi tutte le leggende raccontano che, quando vengono avvicinate, le luci “si allontanano” e “si disperdono”. Questo è dovuto al fatto che le correnti d’aria dei movimenti dell’osservatore spezzano il flusso di gas in uscita e spengono la fiammella.

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Chiudo l’articolo con un pezzo del brano di De André, Un Chimico e vi lascio una domanda: avete mai visto dal vivo un Fuoco Fatuo? Io no, sebbene li abbia cercati a lungo nei cimiteri, ma ormai appartengo alla generazione di persone che ha visto i morti sigillati nelle bare zincate e, finita la decomposizione, sulla tomba antica non si vedono più fiammelle.

“Solo la morte m’ha portato in collina
un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria
per bivacchi di fuochi che dicono fatui
che non lasciano cenere, non sciolgon la brina.”

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