Immaginate di essere in una di quelle case di pietra della Gallura, in villaggi piccoli, isolati sulle colline o sui monti, lontani miglia e miglia da un dottore o da un ospedale che, nei secoli scorsi, era forse peggio di un lager. Immaginate di essere un malato terminale, immobile a letto, devastato dal dolore e dalla sofferenza. Immaginate la vostra famiglia che, impotente, vi guarda spegnervi tra atroci sofferenze ora dopo ora. Immaginate ora di vederli alzarsi, spogliare la camera da ogni amuleto o immagine scaramantica che potrebbe ostacolare il distacco dell’anima dal corpo e aggrapparla a quella casa che deve invece lasciare. Immaginateli dirvi addio e baciarvi e poi lasciare la casa con la porta aperta. Al loro posto, immaginate di veder entrare una donna vestita di nero, velata, con un mazzuolo in mano. E’ lei, la sacerdotessa della buona morte e i vostri familiari se ne sono andati per non intralciarla, per lasciarle fare il suo lavoro. A quel punto sapete che la vostra sofferenza sta per finire.
La sacerdotessa avrebbe seguito un preciso rito, sedendosi accanto al malato, recitando il rosario mentre ne accarezzava il capo, poi avrebbe scelto il metodo più indicato per porre fine a quella vita dolorosa, optando per una martellata secca all’osso parietale, sulla nuca o sulla fronte, oppure per il soffocamento con un cuscino o con le sue stesse mani. Terminato il suo compito, si dileguava nella notte, avendo già ricevuto il suo compenso: mai denaro, piuttosto prodotti agricoli dei campi di famiglia.
Lei era “s’accabadora”, la donna incaricata di far nascere i bambini, quando era vestita di bianco, o di porre fine alle sofferenze dei malati, quando era vestita di nero. Il termine che la identifica è spagnolo “acabar” che significa “porre fine”, proprio perché il suo compito più conosciuto e più importante era quello di porre fine a una vita, non certo farla nascere. Eppure molte testimonianze parlano della medesima figura per entrambe le incombenze: ostetrica e angelo della morte.
Per quanto la discussione sulla fine vita sia di stretta attualità in questi anni, per i sardi, che fin da 1500 anni prima di Cristo hanno usufruito dei servigi della sacerdotessa della Buona Morte, il problema non si è mai posto: se un malato sta soffrendo, va aiutato a passare oltre senza rimorsi, poiché è la cosa giusta da fare per il malato stesso, la sua dignità e per il dolore della famiglia.
Quando s’accabadora si aggirava per le vie del paese, tutti sapevano che l’indomani, in chiesa, ci sarebbe stata una famiglia a lutto e tutti avevano rispetto per quel velo nero e per il sacchetto di lana grezza, impermeabile, che conteneva “su marteddhu”, un martello ricavato da un ramo di olivastro, lungo 40 centimetri e largo 20 che, quando non veniva usato, era nascosto in luoghi sicuri nelle case e nelle proprietà di queste donne.
Il rispetto era però accompagnato da una sorta di tabù: nessuno ne parlava, nessuno ammetteva di conoscerne l’identità, ma al momento del bisogno, tutti sapevano chi chiamare. Benché allontanata per tabù dalle storie e dalle leggende del luogo, il lavoro dell’accabadora era rispettato in quanto lei era considerata il sacro passaggio tra la vita e la morte in armonia con la natura, coi cicli vitali e mai la sua figura è stata associata a Satana, al male o all’assassinio.
Le sacerdotesse hanno operato sicuramente fino agli anni ’60 nelle zone più impervie della Sardegna, ma il mistero sulla loro attività, ancora circondato da quell’aura di segretezza e timore reverenziale, ci narra di un parroco che avrebbe raccolto la confessione di una donna, nel 2003, che dichiarò di aver posto fine alle sofferenze di un uomo molto malato non più tardi di un mese prima.
Per quanto il rapporto degli uomini con la morte sia controverso e personale, tra chi accetta i cicli vitali nella loro naturalezza e chi crede nei mondi ultraterreni, è indubbio che la figura della sacerdotessa della buona morte sia da rivalutare e da analizzare meglio anche in funzione della discussione sociale sull’eutanasia legale.
Personalmente ritengo che un malato che esprima una volontà di porre fine alla propria sofferenza, debba essere ascoltato ed aiutato a morire nel modo più umano e indolore possibile e mi sento di dovermi inchinare alla forza di queste donne che, sebbene isolate e circondate dal sospetto e dal timore, accettavano di fare ciò che altri non avevano animo di realizzare, che fosse accogliere una nuova vita tra le mani o porre fine all’ultima agonia.
0 commenti