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LIBRI, AUTORI, CURIOSITA’ E MISTERI DAL MONDO

“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

La descrizione degli ambienti

da | Dic 14, 2021

Foto da Pinterest

Scegliere dove ambientare il proprio romanzo o racconto può essere facilissimo o difficile, a volte il processo creativo nasce da un luogo in cui si vuole far accadere qualcosa, altre volte da una trama che cerca il luogo adatto per nascere. In ogni caso, qualsiasi sia il vostro punto di partenza nella composizione, ci sono alcuni consigli che posso schematizzare:

  1. Scegliete luoghi che vi permettano di preparare una mappa (crearla in caso di fantasy o recuperarla digitalmente con google maps o earth), in modo da avere una base cui attingere idee e spunti durante le descrizioni ed evitare di citare incongruenze. Molti autori blasonati consigliano di scrivere solo ciò di cui si ha esperienza diretta o di visitare di persona i luoghi in cui ambienteremo i romanzi. Salgari non sarebbe d’accordo con questo principio e io aggiungo che, se lui riuscì a fine ‘800 a creare l’ambientazione di paesi che non visitò mai, noi potremo riuscirci ancora meglio e con più precisione usando il magnifico strumento del Web. Se poi abbiamo modo e tempo per viaggiare, ancora meglio!
  2. Se stiamo scrivendo un racconto fantastico o di fantascienza, avremo molti meno vincoli rispetto a un racconto contemporaneo e ancora meno rispetto a uno storico. In ognuna di queste varianti però è ammessa una licenza d’autore più o meno ampia per rendere la trama interessante. Ad esempio posso inventare una botola segreta sotto una statua dentro il Louvre, ma non posso spostare la Cappella Sistina a Firenze!
  3. Non accettate mai revisioni editoriali che taglino le parti descrittive ambientali necessarie. Se è pur vero che alcuni autori spezzano il ritmo narrativo perdendosi in descrizioni fin troppo dettagliate di particolari tutto sommato inutili, è anche vero che alcuni editor tagliano in maniera acritica le parti descrittive in funzione di un non meglio precisato guadagno in termini di ritmo o lunghezza della composizione. Chi ha dunque ragione? Entrambi. Un romanzo funziona se il lettore riesce a visualizzare un luogo o una persona, ma allo stesso tempo scorre nella lettura con facilità. Dove mettere dunque le descrizioni? Nei periodi lenti, quelli in cui non accade nulla di concitato, che richiede di giungere alla fine della scena velocemente e senza ritardi. Oppure prima che inizi una scena galoppante. In questo modo potremo aiutare il lettore a calarsi meglio nel luogo dell’azione.
  4. Documentatevi. Non c’è un modo elegante per dirlo, ma i romanzi in cui non c’è ricerca del dettaglio, sono noiosi, appaiono raffazzonati, superficiali e non incontrano il successo di massa. Non dobbiamo certo essere dei novelli Eco, ma a volte sapere, ad esempio, che legni si usano in edilizia e arredamento, ci può offrire non solo un ausilio per aumentare il potere descrittivo della scena, ma anche un indizio per un delitto o dei sinonimi per vivacizzare i periodi. Per esempio sapere della durezza dell’ebano o di dove viene prodotto o come viene lavorato o importato, è utile per avere idea dell’arma del delitto (legno scuro, compatto, quasi nero, prezioso, molto costoso) o anche solo per avere una serie di aggettivi e sinonimi da alternare a legno.
  5. Se viene contestata una descrizione troppo lunga e se è possibile, potete spezzarla. Ad esempio un personaggio potrebbe essere descritto da lontano coi dettagli visibili da un osservatore che, man mano, lo vede avvicinarsi. Questo, oltre a far aumentare la tensione nella narrazione, apparirà naturale. Tutti noi infatti vediamo qualcosa prima da lontano, nel suo insieme, poi ne coglieremo i dettagli con la vicinanza sempre maggiore. Ad esempio potremo alternare una prima descrizione da lontano con un primo dialogo o un primo evento, poi progredire coi dettagli, sia del personaggio che dell’evento.
  6. Usate la descrizione come espediente narrativo per far crescere la tensione, l’aspettativa o la curiosità nei confronti di un personaggio o un luogo. Se la descrizione lunga e piatta di una situazione appesantisse la narrazione, è possibile, con pochi espedienti linguistici ed accortezze, trasformarla in un punto di forza, mantenendo così’ la necessità di inquadrare luogo e persone, con la velocità di scorrimento dell’immagine.

Facciamo un esempio di descrizione classica, che potrebbe venire tagliata dall’editor, e una che invece non verrà toccata. Partiamo da una foto qualsiasi presa sul Web con uno schema descrittivo identico per entrambi, a partire dall’ingresso per poi spaziare con una panoramica dal basso (pavimento), all’alto (soffitto), passando per i dettagli dell’arredamento.

Foto dal Web

DESCRIZIONE CLASSICA:

All’apertura della porta di vetro antisfondamento, il battente sfiorò una cascata di fette di Agata nera appese a impalpabili fili di nylon da pesca. Ne uscì un tintinnio piacevole, seppur abbastanza intenso da risuonare nel locale vuoto. Le piastrelle si alternavano in un gioco cromatico di bianco, grigio tortora e nero, che riprendevano il sentore geometrico degli arredi nei colori e nelle forme, dialogando con i lampadari dai lunghi fili che portavano le luci calde, di un giallo rassicurante, ingabbiate in tronchi di piramide neri, fin sopra gli espositori refrigerati dei dolci. Il lungo bancone piegava ad angolo retto seguendo le dimensioni del locale, in modo che, dalla cucina, si potesse seguire il percorso dietro le vetrine pulite e splendenti, senza mai venire a contatto col pubblico. Dentro il bancone, riparati da vetri, sia verso il pubblico, che verso i venditori, i pasticcini e le torte si offrivano alla vista nel loro trionfo di forme e decorazioni, posizionati in file perfette o su alzate artisticamente disposte. Non un solo prezzo era esposto, non un solo cartellino rovinava la perfetta armonia del rasi panneggiati a creare una perfetta scenografia per le torte o i vassoi incastrati come un mosaico studiato. La teca coi prezzi era da tutt’altra parte, alle spalle della cassa, relegata a un angolo vicino all’ingresso, affidata a qualcuno che, arrampicato sul proprio trespolo, si limitava a battere sul registratore o a passare le carte di credito. Alle spalle del bancone, ordinati scaffali si alternavano alle grandi finestre che si sviluppavano in altezza, più che in larghezza, così come era uso nelle architetture del diciannovesimo secolo. Su ogni scaffale, in rigoroso ordine cromatico e di dimensione, i prodotti sembravano ammiccare agli acquirenti con le loro carte cangianti, brillanti di colori metallizzati e così impreziosite da fiori di carta velina e fiocchi, da apparire quasi gioielli in una boutique. Un intero espositore era adibito alle confezioni di latta con la miscela di caffé selezionata dalla famiglia Incanto, un secondo alle bottiglie del liquore alle erbe, ricetta segreta della trisnonna Carola e ai vasetti di marmellate e miele di millefiori prodotte dalle tenute Incanto, e l’ultimo offriva tutte le altre specialità per cui la famiglia era famosa in tutta Milano, ovvero i torroni di dieci gusti diversi e le praline, che spaziavano dai marrons glacés al cioccolato fondente, alle scorze di agrumi candite e ricoperte di cioccolati di vari gusti, alla frutta secca, trattata in diversi modi.
Tutto in quel locale narrava ordine e pulizia e anche lo scorcio della cucina, visibile all’apertura delle porte a saloon suggeriva che la medesima pulizia e il medesimo ordine rigoroso vigessero anche nel retrobottega. Il soffitto alternava travi dritte a terminali di archi a tutto tondo, creando una nuova armonia di unione ad angolo retto, tra l’antica ed austera architettura della manifattura tessile sorta a metà del 1700, con l’esigenza della nuova destinazione d’uso che Ruggero Incanto aveva scelto, dopo aver acquistato l’immobile per pochi spicci nell’estate del 1849, la Pasticceria Incanto. Unica deroga a quella maniacale definizione degli spazi, era il tavolo con i panettoni ed i cesti natalizi, che occupava la parete accanto all’ingresso, nella quale, durante le ristrutturazioni a cavallo del cambio di millennio, era stata ricavata un’ampia vetrina.

DESCRIZIONE MOVIMENTATA:

All’apertura della porta di vetro antisfondamento, il battente sfiorò una cascata di fette di Agata nera appese a impalpabili fili di nylon da pesca. Ne uscì un tintinnio piacevole, seppur abbastanza intenso da risuonare nel locale. Il Commissario Colombo si guardò intorno a lungo, prima di avanzare. Le piastrelle si alternavano in un gioco cromatico di bianco, grigio tortora e nero, che riprendevano il sentore geometrico degli arredi nei colori e nelle forme, dialogando con i lampadari dai lunghi fili che portavano le luci calde, di un giallo rassicurante, ingabbiate in tronchi di piramide neri, fin sopra gli espositori refrigerati dei dolci. Le suole di cuoio del poliziotto scricchiolavano sui piccoli cristalli rotti, frantumandoli in una polvere brillante che sembrava voler rendere ancora più prezioso il gres porcellanato del pavimento. Il lungo bancone piegava ad angolo retto seguendo le dimensioni del locale, in modo che, dalla cucina, si potesse seguire il percorso dietro le vetrine pulite e splendenti, senza mai venire a contatto col pubblico. Dentro il bancone, riparati da vetri, sia verso il pubblico, che verso i venditori, i pasticcini e le torte si offrivano alla vista nel loro trionfo di forme e decorazioni, posizionati in file perfette o su alzate artisticamente disposte. Colombo si avvicinò al bancone, a quella parte terminale con i cristalli rotti, che si aprivano a ventaglio sul pavimento. Qualcosa aveva sfondato il vetro dall’interno. O meglio, da dietro il bancone. C’era del rosso sul vetro. Macchie per terra. Non aveva bisogno di avvicinarsi ancora per distinguere quali fossero glassa di lamponi e quali sangue. Raggiunse il retro bancone e iniziò a percorrerlo lentamente. Non un solo prezzo era esposto, non un solo cartellino rovinava la perfetta armonia del rasi panneggiati a creare una perfetta scenografia per le torte o i vassoi incastrati come un mosaico studiato. Colombo alzò lo sguardo e percorse illocale da quel punto di vista, precluso ai clienti. La teca coi prezzi era da tutt’altra parte, alle spalle della cassa, relegata a un angolo vicino all’ingresso, affidata a qualcuno che, arrampicato sul proprio trespolo, si limitava a battere sul registratore o a passare le carte di credito. Alle spalle del bancone, ordinati scaffali si alternavano alle grandi finestre che si sviluppavano in altezza, più che in larghezza, così come era uso nelle architetture del diciannovesimo secolo. Una di essere era aperta e le incisioni sul legno suggerirono che fosse stata forzata. Su ogni scaffale, in rigoroso ordine cromatico e di dimensione, i prodotti sembravano ammiccare agli acquirenti con le loro carte cangianti, brillanti di colori metallizzati e così impreziosite da fiori di carta velina e fiocchi, da apparire quasi gioielli in una boutique. Un intero espositore era adibito alle confezioni di latta con la miscela di caffé selezionata dalla famiglia Incanto, così come recitava un cartello incorniciato, ricamato a punto erba e punto pieno, un secondo alle bottiglie del liquore alle erbe, ricetta segreta della trisnonna Carola, di cui era visibile anche una foto sbiadita e ai vasetti di marmellate e miele di millefiori prodotte dalle tenute Incanto. L’ultimo offriva tutte le altre specialità per cui la famiglia era famosa a Milano, ovvero i torroni di dieci gusti diversi e le praline, che spaziavano dai marrons glacés al cioccolato fondente, alle scorze di agrumi candite e ricoperte di cioccolati di vari gusti, alla frutta secca, trattata in diversi modi. Non era stato toccato nulla. Non c’era un vasetto fuori posto, ma il commissario indicò all’agente un punto sulla costa dello scaffale, in cui era visibile un’impronta di mano in controluce. E mentre il RIS iniziava a fare i suoi rilievi, sciamando dentro il locale con ordinata rapidità, Colombo cercò ancora un suggerimento per il caso nella visione di insieme del luogo.
Tutto in quel locale narrava ordine e pulizia e anche lo scorcio della cucina, visibile all’apertura delle porte a saloon suggeriva che la medesima pulizia e il medesimo ordine rigoroso vigessero anche nel retrobottega. Il soffitto alternava travi dritte a terminali di archi a tutto tondo, creando una nuova armonia di unione ad angolo retto, tra l’antica ed austera architettura della manifattura tessile sorta a metà del 1700, con l’esigenza della nuova destinazione d’uso che Ruggero Incanto aveva scelto, dopo aver acquistato l’immobile per pochi spicci nell’estate del 1849, la Pasticceria Incanto. Unica deroga a quella maniacale definizione degli spazi, era il tavolo con i panettoni ed i cesti natalizi, che occupava la parete accanto all’ingresso, nella quale, durante le ristrutturazioni a cavallo del cambio di millennio, era stata ricavata un’ampia vetrina.

Nella seconda descrizione, seguiamo l’ispezione di un commissario di polizia che giunge su una scena del crimine. C’è tutto quello che è stato descritto nel primo paragrafo e anche qualcosa di più, perché attraverso l’introduzione del personaggio, possiamo usare il suo punto di vista, la sua esperienza: il sangue e la glassa, l’impronta sullo scaffale, il modo in cui il vetro è stato rotto. Infine, un ultimo punto emerge ed è il contrasto tra l’ordine rigoroso del luogo e l’elemento disturbante della vetrina rotta, il fatto che nulla d’altro sia stato toccato e che può suggerire a un giallista, già alcune considerazioni: non è stata una rapina di ladri sconosciuti, ma un atto intenzionale con un fine diverso. E questo apre tutto un mondo di possibilità.

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