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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

I dialoghi

da | Mag 26, 2023

Foto dal Web

Colonna portante di ogni romanzo, i dialoghi sono spesso una croce e delizia per gli autori, poiché nel dialogo, i personaggi fanno sentire la loro voce e si confrontano con la trama e tutti gli intoppi che l’autore mette in essa. In questo nuovo articolo andremo a vedere come creare un dialogo efficace, esplorando come sempre gli errori comuni, nella speranza che queste righe possano offrire spunti ai nuovi autori. Sulla punteggiatura nei dialoghi ho pubblicato già un altro articolo, visibile qui.

I dialoghi possono coinvolgere due o più personaggi (altrimenti sarebbero monologhi!) e se da un lato, in caso di due soli protagonisti nella scena, è semplice per il lettore seguire il filo del discorso, in caso di una scena corale potrebbe essere arduo stabilire chi stia parlando, a meno di dover rompere il ritmo della successione delle frasi, magari forsennato o necessariamente incalzante, per inserire il classico “disse tizio/rispose caio”.

Come risolvere il problema? Innanzitutto, se abbiamo creato personaggi completi, forti nella loro coerenza e ben stabili all’interno del romanzo, è probabile che abbiano una “voce” talmente caratterizzata da essere immediatamente riconoscibili. Questo si ottiene solo se riusciamo a non appiattire e uniformare i personaggi alla nostra sola voce, ma lasciando loro un carattere e delle sfaccettature costanti e distintive. La balbuzie, una inflessione dialettale o un gergo particolare ne sono esempi virtuosi. A seguire lascio un esempio di dialogo tratto dal mio romanzo “L’abito della Signora“. Ho scelto questo perché è complesso per due diversi motivi: ci sono quattro persone coinvolte e stanno litigando.

Foto archivio personale

«Come ti permetti!» sbottò la sorella, alzando la voce. «Certo sospettavo che foste Carbonari, ma non sapevo nulla della Milesi, non immaginavo fosse una Carbonara, semplicemente non credevo di fare male.»
Priscilla si mise in mezzo: «Calmatevi figliole, Carolina, abbassa il tono o ci sentiranno.»
«Cos’è la Carboneria?» chiese Clara.
«Il tono lo abbasserò quando Caterina mi chiederà scusa!» gridò la primogenita.
«E di cosa dovrei scusarmi? Di essere stata interrogata? Di aver rischiato la prigione o la tortura a causa della tua linguaccia pettegola?»
«Figliole basta ora, sediamoci e parliamone!»
«Madreee! Cos’è la Carboneria?» continuò Clara, petulante.
«Non sono pettegola, come stai ammettendo, è tutto vero!» si difese Carolina.
Tutte e tre ignoravano Clara, perse nei loro litigi o nei tentativi di mediazione di Scilla, tanto che Caterina quasi urlò: «E dovevi per forza dirlo al tuo bello? A un alto ufficiale dell’esercito austriaco? Ma vuoi anche un applauso?»
«Ho solo detto la verità, che ne sapevo che la Milesi fosse una rivoltosa pure lei?»
«Figliole!»
«Madre! C’entra col carbone dei caminetti?» Clara si appese alla manica di Scilla.

In questa breve scena, abbiamo la madre, Priscilla, detta anche Scilla, che cerca di mediate il litigio tra le due figlie maggiori, Carolina e Caterina. La prima ha scoperto che la sorella è invischiata con la Carboneria e lo ha detto nientemeno che al suo fidanzato, un ufficiale austriaco, mentre la piccola di casa, Clara, tenuta all’oscuro di tutto, cerca di capire cosa stia succedendo. La scelta stilistica è stata quella di usare frasi volutamente brevi e di mantenere il carattere di ciascuna ben delineato, in modo che, anche in assenza di specifiche su chi stesse parlando, fosse ben chiaro. Scilla le chiama figliole, Clara è petulante nell’interrompere e le due sorelle grandi battibeccano come voci principali.

Come sempre accade, il primo passo per dei buoni dialoghi è avere dei personaggi stabili e ben delineati. Se un protagonista è analfabeta, non posso fargli risolvere l’enigma “colto” nella trama, non sarebbe coerente. Al massimo potrebbe aggiungere una sua esperienza personale, di vita vissuta, che metta un altro personaggio, davvero in grado di fare il collegamento mentale, nelle condizioni di risolvere la “quest“.

Tra l’altro, a proposito di analfabetismo, uno dei dubbi più gettonati è quello che riguarda il registro linguistico, il lessico da usare nei dialoghi. Ebbene io credo che sia sempre meglio mantenere il medesimo registro, adatto a quel personaggio. Non posso e non devo far parlare in maniera grammaticalmente corretta un personaggio analfabeta. Se si teme che il pubblico non capisca e accusi l’autore di essere ignorante, si può inserire un espediente per evidenziare la cosa, per esempio l’altro personaggio, quello colto, potrebbe correggere l’errore di grammatica. Magari questa dinamica tra i due, l’uno che parla male e l’altro che corregge ogni volta, potrebbe essere carattere distintivo del loro rapporto.

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Il dialogo deve avere poi un suo ritmo, ovvero un’alternanza di frasi coerenti e bilanciate per far progredire la storia e i protagonisti stessi, sfrondando ogni frase non essenziale o non funzionale e avendo ben chiaro il punto di arrivo del dialogo, in modo da non perdersi in divagazioni e voli pindarici. Mi devo allora chiedere: qual è lo scopo di questo particolare dialogo? Cosa deve aggiungere ciascuno per far progredire la storia? Quali temi e punti devo toccare? E di questi, quanti possono essere spostati in altra scena e altro dialogo?

Questo è effettivamente un punto molto importante. Così come descrizioni molto lunghe e scene prive di dialogo possono apparire come wall of text insormontabili, inutili sbrodolature dell’autore che si autoincensa, così scene fatte esclusivamente di dialoghi possono risultare poco appetibili, poco evocative e perfino talmente scarne da risultare fastidiose. La cosa corretta da fare è, ovviamente, cercare l’equilibrio tra scritto e parlato e, nel parlato, alternare dialoghi a movimenti dei personaggi nell’ambiente, in modo da renderli sempre vivi e dinamici e non farli sembrare vuote voci parlanti piazzate nel nulla cosmico di una scena teatrale nera.

Se sono presenti altri personaggi, ma non parlano, non intervengono, ci dobbiamo chiedere se è davvero necessaria la loro presenza e, se la risposta è sì, dobbiamo farli apparire in qualche modo, altrimenti il lettore li dimenticherà, li perderà nella scena. A tal proposito, riporto un altro dialogo, stavolta tratto dal mio romanzo “Memorie dal buio – Meretrix“. Il dialogo è a due, ma c’è una terza persona coinvolta che trova una sua giustificazione e una sua voce, seppure muta. Vediamolo e poi commenteremo.

Foto archivio personale

«Messer Zorzi suppongo», esordì il vampiro, «voi preparate veleni mortali?»
«Chi lo vuol sapere e perché? Non abbiamo mai veduto qualcuno come voi alla nostra porta, prima d’ora e ci chiediamo che interesse abbiate nel farci questa domanda o nell’accompagnarvi a una fanciulla di così squisita levatura.»
Sarah si fece ancor più piccola dietro il vampiro.
«Le domande le faccio io. Per ora ve le faccio con gentilezza e vi offro un pagamento in cambio. Non tirate la corda con me, Alchimista.»
Gioachino non si fece intimidire e, con un sorriso sghembo, che mostrava pennellate di marciume nero tra denti ancora decisamente sani, avanzò verso i due, vicino all’Athanor. «Noi prepariamo ogni genere di veleno e medicamento che l’alchimia concede. A volte i condannati a morte ci pagano per non arrivare vivi al loro supplizio.»
«Avete un registro di acquirenti?»
«Lo abbiamo. Molti chiedono ricette personalizzate, ma in cosa consiste esattamente il nostro compenso?»
L’alchimista si era avvicinato al forno e ne aveva aperto lo sportello superiore, mettendo una sorta di lungo attizzatoio dentro la bacinella di fusione.
«Denaro. Fate il vostro prezzo.»
«E se vi dicessimo che vogliamo altro tipo di pagamento?»
«La ragazza non si tocca», Samael sembrava sul punto di detonare in una sanguinaria e passionale ira e avanzò verso l’uomo che prese l’attizzatoio, ormai rovente e lo usò per tenerlo alla larga.
«Prendetela!» ordinò il Boia e due sgherri provenienti dall’esterno riempirono il portone, approfittando del fatto che il vampiro si fosse allontanato da lei, afferrando Sarah per minacciarla con due stiletti ai lati del collo.
«Maledizione!» Samael si immobilizzò, Sarah chiese debolmente aiuto e lui strinse le mani fino a far scricchiolare i guanti di pelle. «Cosa vuoi?»
«Le nostre guardie sanno cosa vogliamo e, se non lo otterremo nella maniera che pretendiamo, uccideranno la ragazza prima che tu possa fare qualsiasi cosa.»
Non solo parlava di sé al plurale, ma era passato a un colloquiale gergo col vampiro, condendolo con un ghigno di vittoria.
«Non mettermi alla prova», ringhiò l’eterno.
«Non tentare trucchetti, qualsiasi asso tu abbia nella manica. Hai solo da perdere non assecondandoci.»
«Ti ascolto. Conterò fino a dieci. Se per allora non mi avrai convinto, metterò fine a questa farsa. Uno…»
«Quanto astio e sfiducia hai.»
«Due…»
«Vampiro.»
Samael smise di contare e l’alchimista rise sguaiatamente, eccitato come un bambino.
Saltava sul posto battendo le mani.
«Noi vi sappiamo riconoscere. Vediamo il vostro corpo freddo e sentiamo la mancanza di odore. Sappiamo che molti di voi possono entrarci in testa. Qualcuno ci ha provato, ma abbiamo talmente tanto in questa testa, che ci si perdono. Ci vogliono ore per trovare quel che cercano e che invece noi potremmo dire con precisione in un istante se solo…»
«Se solo?»

In questa scena, il vampiro Samael accompagna Sarah Noel a parlare con Gioachino Zorzi, un alchimista e boia da tutti additato come folle e storpio. La ragazza è giovane, inesperta, non è mai uscita di casa e dunque è chiaro che a condurre il dialogo debba essere il vampiro, il personaggio forte della scena. Ci sono un paio di chicche da notare in questa scena: da un lato Samael non si muove, se non per avanzare verso Zorzi o stringere i pugni, e non mostra mimica facciale, così come ci si aspetta da un vampiro. Invece Gioachino prepara il colpo di scena andando ad armarsi con l’attizzatoio rovente senza focalizzare l’attenzione sul movimento, ma facendolo apparire come naturale. Sta solo smuovendo le braci, giusto? No, si sta armando! E poi si muove nella stanza, saltella sul posto confermando le voci sulla sua follia. Sarah, al contrario, si fa piccola dietro il suo protettore e si lascia catturare, incapace di difendersi, limitandosi a chiedere aiuto.

Ogni personaggio quindi, ha una sua voce, compatibile con la sua caratterizzazione e il dialogo presenta chiaramente i suoi protagonisti e si bilancia tra descrizione e parlato. Resta solo una cosa da dire. Cosa avrà chiesto Gioachino a Samael? Lo scoprirete sulle pagine del romanzo!

Foto dal Web

Tra le varie tipologie di dialogo non posso non citare un caso limite, ovvero “Alfa e beta”, di Piero Angela che ho recensito qui. I dialoghi di questo testo sono improntati sulla divulgazione scientifica, non hanno nulla di romanzato e la voce è indicata, come in un testo teatrale, dal nome all’inizio della riga. Faccio un esempio, non un copia incolla, perché non ho il libro sotto mano e non trovo estratti da copiare:

Alfa: Ciao.
Beta: Ciao. Sai dirmi come nascono le stelle?
Alfa: Certo, devi immaginare che…

Ultimo caso nei dialoghi sono quelli “con spiegone”, ovvero quelli in cui necessariamente i personaggi devono riassumere concetti o estrapolare nozioni. Non c’è un modo universalmente valido per realizzarli, perché come la giri e la smonti, alla fine rischi di cadere nella noia o nell’eccesso di contenuti. Il trucco è, come sempre, bilanciare tra i presenti al dialogo, dando voce anche a chi non spiega e cercare di spezzare il wall of text in più situazioni, ove possibile, in modo da non rendere la lezione frontale troppo verbosa e pesante.

E ora tutti a fare esercizi di dialogo tra personaggi!

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