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“Loro temono ciò che non conoscono e distruggono ciò che temono.”

La Levatrice – Bibbiana Cau

da | Set 4, 2025

Foto dal Web

Ci sono figure storiche ormai sparite che esercitano un fascino segreto e rispettoso, che ci trasportano in un passato rurale fatto di stagioni, ritmi naturali e antiche sapienze. Quando ho visto questo libro all’inizio della vacanza estiva di quest’anno non me lo sono fatto scappare: leggere un’autrice sarda, che parla della Sardegna, mentre si è in vacanza nei medesimi luoghi, mi pareva quanto di più appropriato. Una illustrazione frontale dal sapore di arte vintage, un buono strillo e una quarta di copertina intrigante mi hanno fatto aprire il portafoglio senza pensarci due volte. Ma…

Intanto leggiamo insieme la quarta:
Non è una di loro, Mallena. Un giorno di sedici anni prima è arrivata a Norolani insieme con Jubanne, cui è bastato un attimo per innamorarsi e che l’ha sposata per proteggerla da un destino che gravava su di lei come una condanna. Eppure, per gli abitanti di quel paese dove il maestrale porta il respiro del mare, ormai è diventata un punto di riferimento. Perché Mallena è una llevadora che, mettendo in pratica il sapere antico tramandatole dalla madre, assiste tutte le partorienti, anche quelle delle famiglie più umili, senza mai pretendere nulla in cambio. Ma tutto precipita nel settembre 1917, quando Jubanne torna dal fronte ferito nel corpo e nell’anima. Per pagargli le cure necessarie, Mallena chiede a gran voce al consiglio comunale di essere remunerata per il suo lavoro e, ancora una volta, quel sussidio le viene negato. Come se non bastasse, in conformità a un decreto regio, viene assunta un’ostetrica diplomata, destinata a sostituirla.
Arriva dal continente, Angelica Ferrari: nonostante la giovane età, per essere lì ha combattuto a lungo, sfidando le convenzioni sociali e la disapprovazione del padre, che voleva relegarla tra le mura domestiche, sposata con un buon partito. E adesso deve lottare contro la diffidenza delle donne del paese, che la vedono come un’estranea e rifiutano le sue cure. Dovrebbero essere rivali, Mallena e Angelica, invece sono le due facce della stessa medaglia, entrambe spinte dal desiderio di libertà e indipendenza, entrambe tradite dalle persone che avrebbero dovuto proteggerle e vittime della quotidiana ingiustizia che il mondo sa riservare soprattutto alle donne. Tuttavia, quando la situazione si farà insostenibile e i fantasmi del passato torneranno a bussare alla porta di Mallena, sarà proprio l’intera comunità di Norolani a pretendere che, per una volta, si faccia davvero giustizia.

L’incipit è interessante, ben curato, ci trascina subito nella narrazione con la scena di un parto che permette di inquadrare la protagonista, Mallena, una levatrice di 36 anni e la figlia Rosa, adolescente. Pian piano emergono tutti gli altri co-protagonisti, dai parenti ai vicini di casa, le anziane sagge del paese e le giovani spose tutte accomunate dalla sensazione del tempo sospeso.

Siamo infatti in un romanzo storico ambientato nel 1917, quando la Prima Guerra mondiale sta chiedendo il suo tributo di sangue da tutta la penisola, compresa la Sardegna, in cui la maggior parte delle braccia abili per coltivare una terra difficile e aspra, sono invece a perdere tempo coi fucili in mano. Anche il marito di Mallena, Jubanne, è partito da oltre un anno per la guerra e lei si destreggia tra la sua professione, la casa e i due figli, Rosa e il piccolo Daniele.

In effetti la vita continua nel piccolo paese di Norolani e Mallena si prodiga per assistere le puerpere e supplire anche al divario di spesa tra la medicina ufficiale, fatta di dottori, farmacisti e medicine costose, e la farmacopea tradizionale, presa dalla natura e usata da secoli dalle levatrici e dalle guaritrici.

La gioia sembra tornare quando una lettera del Ministero annuncia il ritorno di Jubanne dal fronte: quello che arriva a casa però è un uomo distrutto dalla guerra, tanto nel corpo che nello spirito e la sua presenza, i problemi che si porta dietro da quell’esperienza, gettano un’ombra di dolore sulla casa e sulle vite della famiglia, che si trova costretta a indebitarsi per far curare l’uomo dai migliori dottori e acquistare le medicine.

Mallena allora torna dal sindaco per insistere, per l’ennesima volta, per ottenere un compenso salariale per la sua opera, cosa che le viene negata da sempre. Qual è il problema? Mallena non è una levatrice diplomata, anzi è analfabeta e, sebbene brava nel suo lavoro, non ha legalmente titolo a esercitarlo. Si crea così una frattura tra quella che è la voce dell’esperienza sul campo e della tradizione e la nuova medicina nata tra libri e ospedali.

Di quest’ultima è rappresentante Angelica, una giovanissima levatrice colta e preparata che viene assunta dal sindaco per tacitare definitivamente ogni pretesa di Mallena, ma per entrambe le donne inizia un periodo molto difficile perché Mallena ha conquistato ormai la fiducia delle donne, mentre Angelica, che è lombarda, non parla la lingua locale e non conosce le usanze sui parti e i puerperi, non viene mai chiamata.

Il romanzo prosegue con un aggravarsi progressivo della situazione per Mallena e Angelica di cui non farò spoiler, fino alla catarsi definitiva che porta alla chiusura del romanzo.

Facendo un’analisi dell’opera, della sua struttura e dei personaggi, rilevo una classica curva in crescendo che, da un primo picco destabilizzante (il ritorno di Jubanne), va avanti inserendo nuove situazioni e nuovi personaggi, tutti antagonisti, il che è un problema perché l’aria che si respira fin da subito è quella dell’ineluttabilità soverchiante e un po’ disturba.

Parlando invece del linguaggio, si trovano molti termini e frasi dialettali che vengono tutti puntualmente spiegati o che sono tanto evidenti da essere comprensibili e sempre indicati con un corretto corsivo, quindi alla fine si entra nel “mood” sardo e la lettura scorre senza interruzioni anche perché i periodi sono corti, semplici e con poche subordinate.

Il pensiero dell’autrice si vede trasparire cristallino e con la forza di un proclama di piazza nelle sue frasi contro la guerra, o nei suoi atteggiamenti palesemente anticlericali, ma quando si tratta di prendere posizione tra le due antagoniste, Mallena e Angelica, si nota come la formazione ospedaliera dell’autrice le imponga di dare risalto e spessore alla levatrice diplomata, poiché è palese che non possa prendere le parti dell’analfabeta praticona tout court, ma a mio avviso il conflitto tra le due non viene risolto nel romanzo ed è uno dei motivi per cui ho messo un grosso “ma…” nel primo paragrafo di presentazione.

Dunque veniamo alle note dolenti. La prima nota riguarda una serie di scelte narrative che io considero errore, per lo meno nella narrativa moderna che ruota attorno al principio dello “Show don’t tell“. Come scrivo in questo vecchio articolo del blog, non sono a prescindere contro il “tell” a favore dello “show“, ma trovo corretto anche solo raccontare qualcosa che è necessario inserire, ma che non è così fondamentale da pretendere uno show. Nel romanzo però troviamo troppo spesso, specie nella parte iniziale, uno sproloquio di piccoli incisi storici o culinari, di costume o di usanze che spezzano il racconto e deviano il pathos. Praticamente tutti i tell avrebbero potuto divenire show e così molti spiegoni, ma tutti avrebbero dovuto subire una cesura o una riallocazione. Adesso mi spiego meglio con un esempio principe.

In una data scena, ci troviamo in una casa povera, dove una madre sta vivendo il dramma della morte di un figlio nella stanza da letto mentre, nell’alta stanza, la cucina, la vita continua nell’attesa del lieto evento. Mentre la giovane madre sta per dare alla luce il secondo figlio, la nonna intrattiene il primo cucinando i gnocchi di pasta fresca, i malloreddas. In questa scena gli errori gravi sono due: il primo è che l’autrice (narratore onnisciente), scrive che i gnocchi sarebbero stati mangiati la domenica successiva col sugo. Di fatto ci proietta fuori dall’attuale arco narrativo, anticipando un fatto futuro che non ha utilità ai fini della trama e quindi crea uno scompenso al lettore che si chiede perché i famosi gnocchi al sugo vincano una digressione proprio a cavallo di un momento di elevato pathos, quando sta per morire un bambino.

In un momento così triste, in cui il lettore “deve” entrare in empatia coi protagonisti e piangere con quella madre per la perdita di un figlio, ci troviamo distratti dai gnocchi sardi al sugo e proiettiamo la nostra attenzione dalla stanza da letto sulla tavola felice della domenica successiva, quando probabilmente il bambino sarà morto e sentiamo che un piatto da festa stonerà in una casa a lutto. Allora, cari lettori, visto che ci occupiamo anche di buona scrittura, cosa avremmo potuto suggerire all’autrice? Per esempio di far parlare la vecchia nonna che dice al nipotino: “Vedrai che buoni saranno domenica quando te li farò col sugo!”, perché possiamo accettare la frase della nonna che, essendo personaggio, non sa che la domenica successiva saranno in lutto e quindi fa i gnocchi, ma se è il narratore onnisciente a dirmi che la domenica successiva li mangeranno, significa che non importa più cosa ne sarà del bambino, perché è fatto acclarato che ci saranno i gnocchi al sugo.

Il bambino passa in secondo piano, surclassato dai gnocchi e questo è un errore grave a mio avviso. L’autrice tra l’altro ha uno stile infarcito di tantissimi tell che sembrano voler essere inseriti a forza come riempitivo, una sorta di buiacca tra piastrelle che sbava se non viene ripulita e ha il sapore del “voglio inserirle per forza se no l’ambientazione si sbianca”. Ed ecco che di queste “bave” appaiono in momenti del tutto fuori luogo come nell’esempio fatto prima: ci sarebbe stato un modo elegante, a mio avviso, per parlare di gnocchi in quel momento, ad esempio rimarcando il contrasto tra le due stanze (quella della madre che sta vivendo una tragedia e la cucina dove si continua la vita, come se nulla fosse, cucinando gnocchi) e tra due atteggiamenti (quello della madre disperata e quello della nonna, che può non essere così disperata, oppure lo è, ma tiene tutto dentro per tenere compagnia al bambino più grande e non fargli sentire la tragedia). L’importante sarebbe stato, per quel capitolo in particolare, porre l’accento sul perché, nonostante il momento triste in quella casa, in cucina si pensasse al pranzo della domenica, ma assolutamente, senza fare anticipazioni fuori arco narrativo sul futuro.

Arriviamo al secondo errore dell’autrice, quello di non tratteggiare i comprimari con la stessa precisione dei protagonisti, al punto che non si comprende se l’ostetrica Angelica, arrivata quasi a metà libro e sparita prima della fine, sia un coprotagonista, un protagonista o una comparsa. All’inizio le viene dato molto spessore, addirittura cambia il punto di vista che passa da Mallena a lei e dunque ci si aspetta che agisca e faccia di più nella trama, invece resta un po’ in sordina. Sta lì, come un monito per sancire il passaggio dalla medicina tradizionale a quella statale, ma rappresenta la rivale per la protagonista.

Quando ho letto del suo arrivo mi sono detta: “Ottimo, ora vedremo le due medicine a confronto”, invece no, perché laddove era necessario ai fini della trama continuare a tifare per Mallena, anche se abusiva, illetterata e psicologicamente instabile, è apparsa una Angelica che avrebbe dovuto brillare almeno quanto lei, invece si comporta da carogna, ma il suo gesto viene di fatto presentato come un “atto dovuto” e quindi edulcorato per non farcela odiare, povera ostetrica che ha studiato tanto e papino non la capisce. Quando poi la trama la mette in difficoltà, per non rovinare il personaggio, viene salvata facendo commettere l’Errore (con le E maiuscola) a una comparsa che sta sulle palle fin alla prima apparizione, con buona pace dei lettori. O per meglio dire delle lettrici, perché il messaggio che giustamente passa in tutto il libro, è che le donne possono essere in gamba o colte quanto vuoi, ma nella società di allora (e pure adesso mi viene da dire), vengono sempre messe un gradino dietro gli uomini, quindi intuisco che il grosso bacino d’utenza del libro sia femminile.

Gli uomini peraltro nel romanzo hanno TUTTI un carattere di merda o difetti colossali, dall’essere arroganti, violenti, saccenti, ipocriti, superbi, falsi, iracondi fino all’essere “sottoni”, fraudolenti, approfittatori. Manco a dirlo… le donne sono tutte eroine. Beh, tranne la perpetua, descritta con tale acredine, che non può salvarla manco Draco. Tra gli uomini spicca solo, Jubanne che sarebbe il perfetto “GaryStu” (per chi non si ricordasse, può leggere il punto 2 di questo articolo), se non fosse tornato dalla guerra con una bella sindrome post traumatica; ma ci sta che sbarelli, infatti la sua evoluzione è perfettamente coerente, completa e commovente. Evviva.

E veniamo al terzo errore, proprio quello dell’evoluzione dei personaggi. Premesso che l’evoluzione si vede se i personaggi sono ben tratteggiati, nel romanzo questo non accade con costanza e completezza, e anche la protagonista ha molti “buchi” nella sua scheda personaggio che io, da lettrice, avrei voluto veder emergere, per lo meno perché sono stati sussurrati, in parte risolti e, quindi, mi sarei aspettata che trovassero una loro allocazione nel peso della trama. Se dovessi poi considerare l’apparire e lo sparire dei personaggi principali, vedrei ad esempio che la presenza di Angelica è saltuaria, tardiva e la sua sparizione precoce, affettata e irrisolta. L’antagonista per eccellenza di Mallena, quel misterioso “lui” di cui si favella in tutto il romanzo, ha un cammeo ridicolo, una apparizione ridicola, una motivazione ridicola, un incaponimento ridicolo e una sparizione ancor più ridicola. In capitolo da stralciare a pié pari. E così via… tanti personaggi vengono buttati dentro solo per tirare la tegola addosso ai protagonisti o ai comprimari e mostrare quant’è buona e retta Mallena e quanto è schifoso il mondo.

Ed eccoci al nocciolo. Cosa succede esattamente in questo libro? Poco e niente. Tra digressioni sulla natura, la Sardegna, gli abiti e i costumi (che non è lo stesso concetto di abito da indossare, non un abito fisico almeno), il cibo, l’ostetricia e la vita di paese, la trama crolla addosso alla protagonista. Nulla di quello che le capita se l’è cercato e si vede Mallena annaspare per tutto il libro in una marea di merda che sale, ma nulla di quello che la salva è davvero merito suo e quando vediamo il salvagente lanciato, capiamo che qualcuno ci ha incollato sopra le spine di un riccio di mare, quindi sì, la salverà, ma sai che dovrà lasciare indietro, sulla bilancia dell’ingiustizia, un buon tributo di sangue. Quello che le accade e che le svolta il futuro, ha il sapore di un inserimento postumo per dare spessore a una trama altrimenti piattina, fatta di piccoli spot, immagini e scene che a volte sono un classico riempitivo, a volte fanno progredire la storia a piccoli balzetti del personaggio che è altrimenti completamente in balia degli eventi, che non può salvarsi se non col classico “deus ex machina”.

Questo concetto a me non piace affatto, specie perché Mallena non è la classica “Lucia Mondella”, ma è presentata come una donna emancipata e forte e ci si aspetterebbe un’evoluzione che la porti a uscire dalla fogna con le sue sole forze. Anche il rapporto tra i due mondi dell’ostetricia, rappresentati da Mallena e Angelica avrebbero potuto essere risolti in maniera diversa, perché c’è un bel capitolo di catarsi in cui le due si affrontano e il tema della donna sempre sottopagata e non considerata nella medicina emerge e le due si scoprono sulla stessa barca. Io mi sarei aspettata una collaborazione tra le due: Mallena che impara da lei le nuove tecniche e Angelica che impara la pazienza e i ritmi dei parti naturali (perché questa è la differenza che l’autrice rimarca per bocca di Mallena stessa). E invece no… tié… lasciamole incompiute entrambe… Mallena sempre praticona, ignorante e analfabeta, ma finalmente col campo libero e con dei soldi (anche se non li ha guadagnati, ma “vinti” e scoprirete il perché leggendo il libro) e Angelica che non può fare altro che arrendersi.

Chi vince? Gli uomini ovviamente che, tranne Jubanne, ottengono tutti quello che vogliono. Ma ci sta eh… il periodo storico, la società, il mestiere particolare, solo che posso anche accettare la sconfitta di un protagonista, non tutto deve finire a rose e fiori, ma almeno il protagonista deve aver lottato, mentre invece sia Mallena che Angelica (che ha più o meno lo stesso spazio narrativo di un rutto dopo un’ichnusa) sono due arrese. Si muovono, fanno cose, ma poi lasciano: davanti alla minaccia dei gendarmi, Mallena lascia. Davanti alla mancanza di fiducia della popolazione, Angelica lascia. Di tanto in tanto Mallena alza la testa, si muove, fa cose, ma nessuna di queste ha lo spessore dell’evoluzione del personaggio che alla fine appare esattamente come all’inizio del romanzo.

Sinceramente non capisco tutto il clamore mediatico attorno al libro. Non posso dire sia brutto, ma sicuramente lascia un senso di incompiuto in bocca e una serie di pietre sporgenti lungo l’arco narrativo che fanno inciampare. C’è del bello, c’è del lirismo, c’è del potenziale, ma ci sono anche tanti, tanti errori da principiante. Certo è un romanzo d’esordio, però visto che c’è una Casa Editrice dietro, un editor e degli agenti letterari, oltre a fare un buon marketing per pompare le vendite, avrebbero dovuto fare una revisione migliore e dare migliori consigli all’autrice.

COME LEGGERLO:

Luogo: Sardegna, su una ruvida roccia di granito con la vista sul mare.

Tempo: autunno

Sapori: fichi e miele di corbezzolo

Profumi: foglie di mirto appena spezzate

Musica: Le canzoni sarde distrarrebbero troppo dalla lettura, quindi consiglio questo: Suoni del bosco e della natura.

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